skip to Main Content

Intervista a Paolo La Motta in mostra fino al 16 gennaio 2022

Il rione Sanità si mostra in tutta la sua forza e la sua bellezza negli occhi e nei volti dei suoi figli più giovani e fragili: bambini e ragazzi dipinti e scolpiti da Paolo La Motta, artista che vive e lavora nel quartiere.

Grazie alla sua vasta cultura visuale e alla profonda conoscenza della tecnica scultorea e pittorica, La Motta riesce a far emergere l’anima di questi ragazzi, la loro angoscia, le loro speranze, i loro sogni, instantanee di un’infanzia spesso aspra e quasi sempre troppo breve.

Questi volti scrutati, amati, rispettati e poi fermati nella terracotta o modellati attraverso una pittura corposa e plastica, sono esposti nella sezione di arte contemporanea del Museo e Real Bosco di Capodimonte nel corso della mostra Paolo La Motta. Capodimonte incontra la Sanità (dal 18  febbraio 2021 al 16 gennaio 2022), a cura di Sylvain Bellenger e Maria Tamajo Contarini, promossa e organizzata dal Museo e Real Bosco di Capodimonte in collaborazione con l’associazione Amici di Capodimonte Ets e realizzata grazie al sostegno della Regione Campania, con fondi europei Poc-Programma operativo complementare 2014-2020, su progetto di allestimento dell’architetto Lucio Turchetta e coordinamento di Maria Flavia Lo Regio.

Nell’esposizione sono riuniti ventitré dipinti, nove sculture e il polittico Genny che Paolo la Motta ci racconta in un’intervista a cura di Maria Tamajo Contarini tratta dal catalogo della mostra edito da arte’m.

 

 

 

 

Pittura e scultura: come differenzi le due espressioni? In quale fase avviene la scelta tra disegno, pittura e scultura?

Più che partire dalle differenze mi vengono in mente invece le cose che le accomunano, almeno per me. Nella mia ricerca è importante il rapporto con lo spazio perché sia in pittura che in scultura il rapporto tra figura e spazio è fondamentale.
La scultura che prediligo è quella del modellato e la terracotta e l’argilla sono molto vicine alla pittura. Molte volte nel lavoro plastico utilizzo soluzioni volutamente pittoriche con cui, attraverso il movimento dei polpastrelli o dell’intera mano, si producono aspetti tonali e luministici. Infatti il rapporto tra pittura e scultura è strettamente legato sia agli aspetti spaziali che a quelli luministici. Fondamentale è il rimando al soggetto: ci sono alcuni soggetti a cui penso per la pittura e che invece diventano sculture e viceversa. Insomma questo è anche un modo di allontanarsi dai due linguaggi, di creare delle distanze e magari trovare nuove soluzioni.

Il disegno invece è una sorta di presenza intrinseca. Il disegno come struttura architettonica dell’immagine, sia nel caso della scultura che della pittura, è sempre presente.

Il disegno a sua volta ha una sua autonomia di linguaggio. Ci sono disegni fatti per il piacere di disegnare, mentre il disegno come bozzetto preparatorio è molto raro per me che al disegno sostituisco la fotografia. Lo scatto fotografico è quello che nell’immediato riesce a fermare l’idea, l’appunto fotografico diventa una sorta di riferimento che va naturalmente elaborato. Avendo letto di alcuni artisti che utilizzavano la fotografia, mi sono ancor più convinto dell’uso dello strumento. Mi hanno colpito in tal senso i racconti di Duilio Cambellotti il quale scrive quanto preferisse utilizzare, nelle passeggiate in giro per la campagna romana da cui traeva ispirazione per le sue composizioni, il mezzo fotografico come appunto visivo invece che le tracce definite da due o tre linee di disegno.

 

 

 

I tagli dei dipinti (camera fissa ribassata o riprese angolari dall’alto…) fanno intuire un rapporto oltre che con la fotografia con il cinema, confermi? Che tipo di cinema ti interessa?

 

Sì, sicuramente i tagli dei dipinti hanno un riferimento alla fotografia e naturalmente al cinema perché la curiosità dei vari punti di vista è fondamentale. Se però andiamo ad approfondire questi aspetti, possiamo notare che, anche nella pittura del Quattrocento, ad esempio in certi affreschi di Masaccio con ripresa molto dal basso, o in quelle invece dall’alto, ad esempio di Casorati, c’è uno studio della composizione proprio della pittura. Diciamo che molte volte l’angolazione aiuta a dare uno sviluppo spaziale a determinati soggetti. Poi naturalmente ci sono anche i tagli che a volte sono sbilanciati e creano degli spazi vuoti e questi sono i cosiddetti “tagli fotografici” che ritroviamo anche nella stampa giapponese.

Il cinema sicuramente è tra le arti figurative quella che forse più mi ha accompagnato nel tempo, particolarmente il cinema visto in televisione. Io sono del ’72, dunque ho vissuto le proiezioni di cinema trasmesso in televisione tra gli anni Settanta e Ottanta, come utili alla mia formazione. E, sia da un punto di vista dei contenuti che narrativi, il cinema ha arricchito il mio vocabolario visivo. Naturalmente ci sono dei registi e dei film che in particolare hanno una valenza fortemente stilistica, e il pensiero va all’ Antonioni della trilogia dell’incomunicabilità con L’avventura, La notte, L’eclissi. Vedendoli molte volte ho fatto una lunga serie di fermo-immagine su alcuni fotogrammi da studiare e credo sia stato per me un riferimento molto forte.

Naturalmente per quanto riguarda ambientazioni, paesaggi… non escludo anche la forte impressione avuta da certo cinema di Pasolini e penso a quei primi piani forti di Accattone. D’altra parte lo stesso regista si era laureato con Roberto Longhi ed ebbe un’esperienza con la pittura del Quattrocento. Ecco, tra pittura, fotografia e cinema è un rimando continuo, è un lavoro sui linguaggi che vanno sempre a compenetrarsi, come un fuoco che si alimenta continuamente.

 

 

 

Molti artisti contemporanei negano un riferimento creativo alla tradizione, tu lo sottolinei. Come entra in relazione alla tua attività di artista la conoscenza della storia dell’arte?

 

Questa storia che gli artisti negano la tradizione credo sia un retaggio legato alle avanguardie storiche. In particolar modo penso ai futuristi con “uccidiamo il chiaro di luna”. Insomma questo abolire tutto ciò che è passato e tradizione, è stata una necessità più programmatica che naturalmente fattiva perché anche le avanguardie storiche si sono nutrite della tradizione.

Ecco, una sorta di tabula rasa è più concettuale che pratica, dunque la riflessione per me è stata quella di conoscere e recuperare tutto ciò che mi circondava e mi incuriosiva. Vivere in una città come Napoli, dove le famose stratificazioni storiche sono tanto presenti nel quotidiano, ha fatto sì che la tradizione, intesa come qualcosa che si rinnova – perché, attenzione, non la ritengo come qualcosa di statico con un codice da seguire – fosse alla base della mia ricerca.

La tradizione per me rappresenta tutto un mondo da scoprire, che si può interrogare e con cui si può continuamente dialogare. Naturalmente tutto ciò mi porta ad avere un rapporto con la storia dell’arte di cui, voglio sottolineare, mi ha sempre affascinato l’aspetto critico.

Ricordo una intervista a Francis Bacon in cui dichiarava di non tollerare che molti artisti contemporanei non conoscessero la storia dell’arte. Io penso che oggi, con gli strumenti che abbiamo; parlo di internet o comunque della facilità immediata di poter accedere ad un libro, oggi è veramente molto semplice accedere all’arte del passato, per me fonte di curiosità, conoscenza e scoperta continua.

 

 

 

Sembra molto forte il legame con la cultura napoletana tardo Ottocento e inizio Novecento, oltre Gemito anche Tizzano, Viti. Poi le lezioni con Augusto Perez, artista di altissimo valore che attende la giusta valutazione, dicci qualcosa sui tuoi “padri”.

 

Si, la cultura tardo Ottocento, come quella del Novecento, a Napoli fa parte di quella curiosità di cui parlavo, culture che sembrano in qualche modo negate, o comunque occultate o, ancor di più, viste solo negli aspetti più tradizionali, con modi troppo illustrativi e da cartolina.

Quando si pensa all’Ottocento a Napoli si pensa alle marine, alla barchetta e al mare, diciamo che spesso mi arrivava una percezione molto banalizzata della cultura dell’Ottocento. Invece, grazie alle visite continue al Museo di Capodimonte, dove negli anni Novanta e fine Ottanta erano concentrate sia la collezione del Banco di Napoli che la collezione dell’Accademia di Belle Arti e molte opere della collezione Rotondo provenienti da S. Martino, la mia attenzione naturale era verso gli artisti a me più vicini, più moderni perché con una sensibilità veramente, tra virgolette, contemporanea. Penso ad Antonio Mancini, a Michele Cammarano e allo stesso Gemito, giusto per fare qualche nome.

Basterebbe prendere in esame un’opera grafica di Gemito per capire quali grandi sensibilità, quasi espressioniste, si notano in queste opere e in questo artista. Poi nel tempo la grande scoperta di artisti come Domenico Morelli, che per me rimane forse tra i più grandi. Di lui si legge sempre come pittore storico, mentre è stato un artista molto attento al linguaggio stesso della pittura a cui conferisce leggerezza attraverso la ricerca tonale.

Naturale conseguenza della cultura dell’Ottocento, il Novecento napoletano era, ed è ancora, mi dispiace dirlo, una sorta di aspetto archeologico: artisti poco conosciuti o da conoscere, di opere poco visibili e di scoperte che ho avuto il piacere di fare. Infatti quando ho frequentato l’Accademia, o il liceo Artistico, ho avuto fortemente l’immagine di una Napoli legata a quello che si era interrotto da poco.

L’esplosione della Transavanguardia e le mostre di Lucio Amelio e prima la scuola di Posillipo, ma tutto quello che era successo al centro, cioè negli anni Trenta e Quaranta, era ancora molto occultato. Dunque l’idea di poter scoprire e approfondire questo periodo mi ha naturalmente influenzato nella mia ricerca artistica. Ecco, tra i nomi si è citato Tizzano, di cui il maestro Perez diceva che dopo Gemito c’era Tizzano (e io aggiungevo che dopo Tizzano c’era Perez), artista che rimane ancora abbastanza sconosciuto nonostante abbia partecipato a ben undici Biennali, per invito. Artista molto, molto complesso. Chiaramente questi, tutti insieme, sono stati elementi che mi hanno influenzato anche perché la mia idea è sempre quella di guardare a quello che succede sul territorio, su ciò che mi circonda, ciò che in qualche modo, in maniera immediata, posso poter toccare e vedere. Sempre legato alla fine ad un discorso di identità culturale.

 

 

 

I maestri della generazione della seconda metà del Novecento a Napoli si sono orientati verso l’astrattismo o il geometrico, ma anche sperimentazioni visive e installazioni. Tu hai scelto il figurativo. Raccontaci di questa scelta: è stata consapevole? È mutata negli anni?

 

Io mi riallaccio a quello che era il dibattito dell’immediato dopoguerra, una sorta di divisione tra astrazione e figurazione, questione fortemente sentita in Italia.

Da una parte si tornava al neorealismo, si pensi al cinema o comunque a certa pittura di taglio cosiddetto socialista, come quella di Guttuso o di altri, mentre dall’altra parte c’era la sperimentazione degli anni Cinquanta che invece tagliava netto con la realtà e appunto erano gli anni non solo dell’astrazione, ma anche dell’informale.

Io credo che questo dibattito, alla soglia degli anni 2000, ma già alla fine del Novecento, non aveva alcun senso. Ricordo alcune discussioni fatte con Augusto Perez in cui si discuteva di questa divisione che ormai poteva considerarsi superata. Anche perché la pittura rientra in forme nuove nelle sperimentazioni degli anni Ottanta, o comunque già negli anni Settanta. Quello che possiamo definire una sorta di citazionismo in pittura, contemporanea all’exploit dell’arte povera, e quindi pensare agli anni Ottanta con la Transavanguardia, quindi con l’idea di un ritorno alla pittura o gli anni Novanta con una sorta di neofigurazione, insomma questo dibattito negli anni in cui mi sono formato, era finito, non c’era nessun pregiudizio. Ma soprattutto non è stata una scelta netta, di parte, perché quello che avevo capito e comunque quello che ancora oggi è fondamentale, è che non esiste nessuna differenza tra astrazione e figurazione, ma solo una scelta di linguaggio da usare per le cose da dire. Rimane sostanzialmente quello, tanto è vero che ho notato che in questi ultimi anni c’è un ritorno ad una figurazione.

Sono tanti i pittori che sembrano fare a gara con la fotografia, ma non come nell’Ottocento e c’è il rischio di una figurazione retorica e fuori luogo, depistante, quasi a sottolineare una sorta di pochezza di spirito dei tempi; dunque diciamo che la mia idea di figurazione rimane una figurazione sperimentale, che si porta magari al limite e che non vuole essere mai banale in questo senso.

 

 

 

I soggetti che rappresenti sono attraversati da uno sguardo di indagine psicologica, sappiamo che raffiguri ragazzi con cui lavori nelle tue esperienze di laboratorio alla Sanità, raccontaci di questo laboratorio come fonte di ispirazione per la tua ricerca.

 

Approfitto di questa domanda per mettere in evidenza alcuni aspetti del mio lavoro che credo siano fondamentali.

La mia formazione è stata improntata su un concetto caro a Oscar Wilde, quello de “l’arte per l’arte”, cioè che ogni forma d’arte nasca dall’arte e che questo in qualche modo porti l’arte lontano dalla realtà e con vita indipendente.

Un concetto di stile che rientra sui temi di elaborazione della forma, che per me sono importanti e fondamentali per il mio lavoro, di cui dirò più avanti. Invece proprio questa esperienza di laboratorio con i ragazzi della Sanità ha fatto sì che portassi la mia esperienza formale in una realtà che è molto particolare e che a un certo punto ha cominciato a penetrare nel mio lavoro. Per cui quei volti che erano una realtà, ma con delle storie, dei vissuti, dei sentimenti forti, è diventata protagonista del mio lavoro. E d’altra parte il mio lavoro, mi ha permesso di entrare in queste situazioni con la necessaria posizione distaccata, che permette di evitare qualunque lettura patetica o di banale denuncia, insomma tutto ciò che credo sia nocivo a quella che è la lettura del contesto sociale e della mia ricerca.

Al di la di questo chiaramente l’esperienza di laboratorio diventa un’esperienza umana fortissima, capace di creare dei cambiamenti personali e individuali che mi fanno sempre più pensare al fatto che è un’età e un contesto particolare per cui è necessario porre grande attenzione.

E’ chiaro che poi mi sono ritrovato a lavorare anche con immagini fotografiche perché avevo fatto mio quel bagaglio di contenuti e energie per cui una semplice foto o un’immagine alla quale non era riconducibile un volto che io conoscessi, poteva tranquillamente entrare nel mondo delle cose che andavo a creare.

 

 

 

Il ritratto di Maradona, nato d’impulso a seguito delle innumerevoli immagini pubblicate in occasione della morte del campione, come tu stesso racconti, apre al tema dell’utilizzo della fotografia come modello della raffigurazione. Come utilizzi l’immagine fotografica, a cui hai già accennato?

 

Sicuramente il ritratto del piccolo Maradona nasce da un impulso immediato, dovuto a questa visione di un’immagine del calciatore da bambino che ha suscitato in me un’emozione ed una serie di connessioni legate poi ad altre immagini, altre situazioni, espressioni di un mondo che conosco bene, che è il mondo dell’infanzia, di una certa infanzia. Quello sguardo è stato in realtà ciò che mi ha colpito perché era qualcosa di molto familiare.

In quel momento non era importante che fosse Maradona o meno, è una scelta presa al di là del fatto episodico, che va nel profondo ed eterno; quello che ho visto in quel momento, in quella immagine. Poi è chiaro che l’aspetto emotivo della notizia tragica della morte di Maradona, sicuramente ha fatto da sfondo a questa scelta, a questa emozione.

Il dipinto è nato nella stessa giornata: stavo lavorando ad un altro quadro quando a un certo punto ho visto l’immagine dallo schermo del telefonino, immediatamente ho interrotto l’altro lavoro, ho preso una piccola tavoletta e in maniera istintiva è nata l’opera. Non è la prima volta che elaboro da un’immagine fotografica, alcuni ritratti sono nati da immagini riportate, addirittura sullo sfondo del computer, e poi elaborate. Questo sottolinea, ancor di più, che il mezzo fotografico è semplicemente una base, è qualcosa che rimane ai margini.

E’ importante per me il linguaggio che vado a utilizzare che è quello del colore, del gesto, della pennellata… insomma tutto ciò che si confà ad un linguaggio propriamente pittorico.

Per me il limite di certa pittura di colleghi contemporanei è l’uso della immagine fotografica fine a se stessa. Non esplorano nemmeno il rapporto onirico di certo iperrealismo americano che arriva a sconfinare felicemente in una sorta di nuova oggettività, e parlo di certi artisti iperrealisti americani come Chuck Close che utilizza la fotografia e poi arriva a dipingere grandi immagini, dettagli di volti che diventano poi altra cosa.

E’ un rapporto molto complicato tra fotografia e pittura e credo sia un dibattito ancora vivo, da fare.

 

L’opera Diego è stata acquistata e poi donata al Museo di Capodimonte dall’Associazione Premio GreenCare con il sostegno dell’imprenditore Gianfranco D’Amato a corollario dei due campetti di calcio realizzati nel Real Sito, per favorire il legame tra i giovani napoletani, esaltare il valore sociale del Bosco e intercettare nuovi pubblici nel Museo.

 

 

 

 

Scopri tutto sulla mostra Paolo La Motta. Capodimonte incontra la Sanità visitabile fino al 16 gennaio 2021

 

 

Guarda il video realizzato in occasione della mostra su itsart.tv

 

Guarda anche la mostra che l’artista ha tenuto al Museo: Incontri sensibili: Paolo La Motta guarda Capodimonte (30 giugno 2018 – 24 febbraio 2019) nell’ambito del ciclo di mostre-focus che ospitano artisti contemporanei in dialogo con la collezione storica di Capodimonte

Back To Top