L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… l’inaugurazione virtuale della mostra Luca Giordano
Continuiamo la nostra inaugurazione virtuale della mostra Luca Giordano. Dalla Natura alla Pittura con un contributo prezioso di Patrizia Piscitello, co-curatrice dell’esposizione, e di Alessandra Rullo, storiche dell’arte del Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… ci illustrano un viaggio nella storia: le tele di Luca Giordano dalle Chiese di Napoli al Museo e Real Bosco di Capodimonte, un cammino lungo secoli segnato da eventi bellici, cambi dinastici e disastri naturali.
Luca Giordano in cammino: dalle chiese di Napoli al Museo di Capodimonte
Patrizia Piscitello – Alessandra Rullo
A Umberto Bile la cui conversazione su questi temi ci manca.
Napoli, il 3 Marzo 1787
“Qui si vede con meraviglia tutta intiera la facciata di una chiesa dipinta, dall’alto al basso; sopra la porta, Cristo il quale scaccia dal tempio venditori e compratori, i quali spaventati ruzzolano giù tutti dalle scale, a destra ed a sinistra. […] Luca Giordano doveva pure lavorare in fretta, per portare a compimento opere di quell’importanza.”
(W. Goethe, Viaggio in Italia)
Nel diario domenicale del tour cittadino di Goethe si inseriscono la visita alla chiesa dei Girolamini – con la descrizione dell’affresco di controfacciata di Giordano, la Cacciata dei mercanti dal tempio – e al sito reale di ‘Capo di Monte’.
Sono luoghi che segnano idealmente gli estremi di un viaggio, stazione di partenza e d’arrivo, di alcune straordinarie pale d’altare di Luca Giordano: storie individuali che, attraverso secoli e decenni, con tappe intermedie e soggiorni forzati, approdano nelle sale del museo di Capodimonte.
La ‘Capodimonte’ visitata da Goethe era molto differente da quella odierna: la collezione era costituita per lo più dalle opere di collezione Farnese incrementate da dipinti, vedute di siti reali e ritratti, che celebravano la dinastia borbonica, con opere di artisti della ‘scuola napoletana’ del Seicento, Battistello, del Po, Ribera, Giordano, Preti, Falcone, alcune delle quali provenienti da chiese.
Nel 1799, all’indomani della caduta del governo costituzionale, la collezione contava ben 1783 dipinti dislocati in circa ventiquattro stanzoni, secondo l’inventario redatto da Ignazio Anders, Custode Maggiore della Real Galleria.
Tra le tele a carattere sacro di Luca Giordano vanta il più antico ingresso nelle collezioni il San Francesco Saverio che battezza i neofiti e san Francesco Borgia, pala dell’altare maggiore della chiesa gesuita dedicata ai Santi Francesco Saverio e Borgia, nei pressi del Largo di Palazzo (attuale Piazza del Plebiscito).
All’indomani della soppressione dell’Ordine Gesuita, a partire dal 1767, l’edificio fu affidato prima ai Cavalieri costantiniani, e poi, dal 1827, all’Arciconfraternita di Nostra Signora dei Sette Dolori.
Il dipinto passò nel 1785 nelle raccolte di Capodimonte, e venne descritto da Ignazio Anders nella “stanza diciannovesima, n. 839: Quadro alto palmi sedici, largo palmi dodici: battesimo di San Francesco Saverio agli indiani, Sant’Ignazio [sic] inginocchioni con Gloria d’Angeli. Luca Giordano”.
Con la realizzazione del Real Museo Borbonico, ottenuto riadattando e ingrandendo il Palazzo dei Regi Studi ai piedi della collina di Capodimonte, il San Francesco Saverio fu trasferito nella nuova sede museale, trovando posto nelle stanze dedicate alla scuola napoletana, al secondo piano dell’ala occidentale dell’edificio.
Il cosiddetto “Museo Generale ai Vecchi Studi”, poi Real Museo Borbonico, fondato nel 1778, rappresentò ancor più del British Museum e prima ancora del Louvre, un’idea enciclopedica di museo che, come affermava la pubblicistica dell’epoca, era un unicum in Europa per il suo tentativo di comprendere “tutto lo scibile umano”.
L’unione fra il collezionismo dinastico di provenienza farnesiana, incrementato da quello borbonico, con i materiali archeologici provenienti dagli scavi di Pompei, Ercolano e Stabia, cui seguì l’ingente massa di opere requisite da chiese e conventi soppressi in età napoleonica, determinò la creazione di un istituto capace di esercitare forza attrattiva per successivi acquisti o donazioni, nonché di radicarsi come forza propulsiva per un’innovativa e del tutto inedita azione di tutela sul territorio del Regno.
Il San Francesco Saverio, segnalato durante la sua permanenza in chiesa, celebrato nelle guide del Real Museo Borbonico soprattutto per la rapidità di esecuzione, conobbe un momento di sfortuna agli inizi del Novecento, definito nella guida della Pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli (denominazione dell’istituto post Unità d’Italia), pubblicata nel 1911 da Aldo de Rinaldis, “un quadro scadente, nel quale l’abilità grande del pittore nel raggruppare figure copiose in vasto spazio non riesce a nascondere la vuotaggine del tutto”.
Se il San Francesco Saverio entrò nelle raccolte museali per la soppressione dell’ordine gesuita e la nuova dedicazione della chiesa a San Ferdinando, la secolarizzazione della Madonna del baldacchino di Giordano, una Madonna del Rosario in costumi berniniani, proveniente dalla chiesa di Santo Spirito di Palazzo, è legata alla rimodulazione urbanistica del Largo di Palazzo.
Con un decreto del 1809 Gioacchino Murat dispose la creazione della “Piazza in prospetto del Palazzo Reale”, e nelle prescrizioni dei lavori di abbattimento rientravano le due chiese di San Luigi e di Santo Spirito e i rispettivi conventi.
Il Gran Foro Gioacchino al principio del 1815 – anno della sconfitta di Murat (5 maggio 1815) e della restaurazione borbonica (16 settembre 1815) – era in parte realizzato.
La Madonna del Baldacchino, pala dell’altare del transetto destro della chiesa era celebre tra i viaggiatori del Grand Tour, anche per l’entusiastica descrizione resa da De Dominici: copiata da Fragonard (il disegno è conservato a Pasadena, The Norton Simon Foundation), rientrava tra le ‘cose mirabili’ di Napoli riprodotte in calcografia nel Voyage Pittoresque del Saint-Non, che l’aveva vista in chiesa nel 1781.
Purtroppo sia il disegno che l’incisione si limitano alla ripresa della sola tela, quindi non sappiamo come fosse incorniciata e a che altezza potesse essere vista.
Prima della demolizione della chiesa venne rimossa e trasferita al Museo Reale di Napoli.
Analoga sorte toccò alla smaltata Madonna del Rosario, opera giovanile di Luca, realizzata nel 1657 per la chiesa della Solitaria, alle pendici del monte Echia, antistante Palazzo Reale; stessa zona, stesso destino di Santo Spirito di Palazzo: chiesa e convento vennero demoliti per far spazio al foro murattiano e le opere d’arte vennero musealizzate.
Nei cataloghi del Real Museo Borbonico, a partire da quello di Lorenzo Giustiniani del 1824, e nelle guide successive, si delinea un allestimento delle gallerie per scuole pittoriche regionali – convenendo sul nuovo disegno della storia dell’arte tracciato da Luigi Lanzi – e venne realizzata un’ala del museo dedicata alla scuola napoletana, la “scuola quarta” della Pinacoteca, con una sala pressoché monografica dedicata a Luca Giordano, con le battaglie, i bozzetti per gli affreschi di Montecassino e la Madonna del Rosario della Solitaria, segnalata come “Quadro d’ammirarsi”.
Purtroppo nel museo ordinato da De Rinaldis del 1911 il Rosario della Solitaria, come il San Francesco Saverio, cadde in disgrazia, non si confaceva al suo gusto: “gli angioletti sono goffi; i tre santi dal cranio largo e schiacciato sono quasi identici nei loro volti pallidi”; e così venne tolto di mezzo e prese la strada del deposito.
Una rara fotografia d’archivio degli anni Trenta del ‘900 del Museo Nazionale ritrae la Madonna del Baldacchino nella sala con altri Giordano (l’ottagono d’Avalos con il Sant’Alessio morente e la Venere, Marte e Cupido), la Strage degli innocenti di Vaccaro e dipinti di scuola napoletana; al centro della stanza un sedile di legno circolare con una scultura in bronzo di Guglielmo Della Porta, il Camillus, cardine della sala e al contempo straordinario elemento d’arredo; l’allestimento sancisce il rapporto tra pittura e arti decorative nelle scelte museografiche.
Gli anni a cavallo tra le due guerre mondiali diedero un decisivo impulso alla destinazione collettiva del patrimonio. È in questa fase che si gettarono le basi, anche in sede legislativa, della difesa del patrimonio culturale come simbolo ineludibile dell’identità nazionale.
Il 15 aprile del 1943 venne sollecitato l’intervento della Soprintendenza nella chiesa di Santa Maria del Pianto “colpita da incursioni nemiche” per custodire le opere in un luogo sicuro, tra queste i due Luca Giordano, San Gennaro intercede presso la Vergine per la peste e i Santi protettori di Napoli adorano il Crocifisso.
Le tele vennero ritirate dopo pochi giorni, il 27 aprile, per essere messe in sicurezza nei depositi di Palazzo Reale.
Alcuni passaggi sugli spostamenti alla fine della guerra non sono documentati dagli archivi amministrativi, le tele furono con ogni probabilità riportate in chiesa.
Si conserva il verbale di ritiro dei due dipinti dalla chiesa da parte della Soprintendenza di Palazzo Reale nel luglio del 1974, probabilmente a seguito della segnalazione del cattivo stato di conservazione delle opere, documentato in una fotografia scattata il 1 giugno dello stesso anno, in cui si riconoscono i Santi protettori di Napoli adorano il Crocifisso.
L’anno successivo le due grandi tele vennero portate a Capodimonte da Raffaello Causa per un intervento di restauro nei laboratori della Soprintendenza e successivamente rientrarono al Palazzo Reale dove vennero esposte nella sala XIV del museo dell’appartamento storico.
Il faro di questo esteso programma di restituzione della dignità ai cittadini napoletani fu, senza dubbio, il grande progetto, a cura del Soprintendente Bruno Molajoli e dell’architetto Ezio De Felice, di riportare nella Reggia di Capodimonte tutto il patrimonio storico-artistico che si era addensato in maniera confusa in alcune sale dell’antico Museo Nazionale, separandolo da quello archeologico.
“Quando tutto manca per sopravvivere” – diceva Molajoli – “si avverte ancor più urgente l’esigenza di restituire una dimensione ‘spirituale’ alla città”.
Nacque così un esperimento museologico di grande rilevanza internazionale capace di combinare selezione e complessità, chiarezza espositiva e suggestioni emotive, moderne soluzioni espositive e ambientazioni in stile: il Museo di Capodimonte aperto al pubblico il 5 maggio del 1957.
I criteri di riordino della pinacoteca erano cronologici, il nucleo di dipinti farnesiano era integrato dai primitivi fino al Cinquecento; interpolavano il percorso sale monografiche come quella celeberrima dei Tiziano e quella dei Luca Giordano.
Il San Francesco Saverio si trovò così a ‘rientrare’ nel Palazzo Reale di Capodimonte, che per primo lo accolse nel 1785, e venne esposto su un tramezzo creato ad hoc nella sala 41 del secondo piano del Museo di Capodimonte (attuale sala 102), dedicata interamente a Luca Giordano, affiancato dai due ottagoni raffiguranti Sant’Alessio morente e Cristo deposto provenienti dalla Collezione D’Avalos.
Nella stessa sala angolare erano esposti i due Rosari di Santo Spirito di Palazzo e della Solitaria.
Tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento hanno fatto il loro ingresso a Capodimonte tre importanti pale d’altare che, a causa di eventi catastrofici, non potevano rimanere nelle chiese dove erano conservate sin dalla loro realizzazione: la Sacra Famiglia con i simboli della Passione, proveniente dall’altare maggiore della chiesa dei San Giuseppe delle Scalze a Pontecorvo (conosciuta anche con la dedicazione a Santa Teresa), nel quartiere Avvocata, e due dipinti raffiguranti l’Elemosina di san Tommaso da Villanova e l’Estasi di san Nicola da Tolentino, dalla chiesa di Santa Maria della Verità (detta anche Sant’Agostino degli Scalzi), nel rione Materdei, dove ornavano rispettivamente le mense situate nella seconda cappella destra della navata e nel cappellone sinistro della crociera.
La Sacra Famiglia fu prelevata dalla chiesa di San Giuseppe e Santa Teresa a Pontecorvo nel marzo 1980.
Qualche mese dopo, il 23 novembre 1980, il violento terremoto che colpì la Campania, la Basilicata e la Puglia, rese necessarie ulteriori operazioni di messa in sicurezza dei luoghi e delle opere d’arte.
Uno degli edifici più colpiti dal sisma fu proprio la chiesa di Santa Maria della Verità: già resa precaria strutturalmente dai lavori per l’apertura nel 1810 dell’asse viario denominato Corso Napoleone (attuale Corso Amedeo di Savoia), subì danni notevoli, in particolare nelle volte con ampie lesioni longitudinali e trasversali.
Si rese necessario l’immediato prelievo e il ricovero nel deposito della Basilica del Buonconsiglio di diverse tele, tra le quali l’Elemosina di san Tommaso da Villanova e l’Estasi di san Nicola da Tolentino di Luca Giordano.
Le due opere di Santa Maria della Verità, unitamente alla Sacra Famiglia con i simboli della Passione della chiesa di San Giuseppe a Pontecorvo, non potendo rientrare nelle chiese di appartenenza a causa delle precarie condizioni statiche, vennero custodite in via cautelativa nel Museo di Capodimonte.
Agli inizi degli anni Novanta del ‘900 venne cambiato radicalmente l’assetto del Museo del 1957: la pinacoteca venne riallestita per provenienze collezionistiche recuperando al piano nobile gli spazi dedicati, alla fine del Settecento, alla collezione Farnese, secondo un criterio cronologico e per scuole regionali.
La Galleria napoletana fu trasferita al secondo piano con lo stesso principio, ricreando così quella galleria voluta da Gioacchino Murat nel Museo del Palazzo dei Regi Studi, con un ampio spazio dedicato alle straordinarie opere tra naturalismo e barocco.
Le opere di Giordano provenienti dalle chiese, vennero dunque inserite, a partire dal 1998, nell’allestimento della sala 103 al secondo piano del museo, che, per la sua vastità, poteva accogliere le sei tele ecclesiastiche di grandi dimensioni, andando così a costituire parte integrante del percorso delle Arti a Napoli dal Duecento al Settecento.
A queste si aggiunsero nel 2001, in occasione della mostra monografica sul pittore, le due pale di Santa Maria del Pianto, integrate poi nel percorso museale di Capodimonte, dopo un fervido dibattito istituzionale, tra ragioni di tutela e ragioni di contesto, sulla opportunità o meno del loro rientro in chiesa a chiusura dell’esposizione.
I dipinti di Giordano sono la cartina al tornasole di una storia più ampia che vede come effetto la costituzione della ‘galleria dei napoletani’ a Capodimonte, nell’intento di rendere, pur con le ovvie limitazioni dovute agli spazi museali sempre troppo angusti e mortificanti rispetto a quelli ecclesiastici, il trionfo della pittura a carattere sacro del barocco napoletano.
Il testo di Patrizia Piscitello e Alessandra Rullo è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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