L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… l’Effetto Flora
Oggi, per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Patrizia Piscitello, storico dell’arte e curatore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, ci regala un approfondimento all’argomento che vi abbiamo anticipato ieri, la Flora Farnese di Filippo Tagliolini, e ci spiega l’Effetto Flora, le interpretazioni dettate dal gusto e dalla moda del modello classico.
Un aspetto interessante delle riduzioni in biscuit della statuaria classica Farnese realizzate nella Real Fabbrica di porcellana di Napoli è ci che forniscono suggerimenti sui restauri delle sculture con interpretazioni e adeguamenti dettati dal gusto e dalla moda.
Cerchiamo di capire come e perché attraverso la Flora Farnese (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, MANN, inv. 6409).
La riedizione del modello – realizzata sia in biscuit che in bronzo – conobbe nella seconda metà del Settecento un grande successo: era in produzione nella manifattura di Volpato sin dal 1786, inserita negli elenchi di vendita dei bronzetti di Francesco Righetti dal 1788, nella manifattura di porcellana di Napoli era realizzata dal 1795 in più formati, piccola/grande/grandissima.
Per la redazione ci si basava sulle numerose incisioni dei repertori di statuaria classica delle collezioni romane dati alle stampe tra Sei e Settecento con le integrazioni del restauro di Guglielmo della Porta (Porlezza 1515 – Roma 1577): una testa potentemente michelangiolesca dall’acconciatura con scriminatura al centro, raccolta sulla nuca, da cui sfuggivano dei riccioli che ornavano oziosamente il collo e le tempie, nella mano sinistra un serto di fiori.
Nella Manifattura di Napoli si inserisce in produzione la Flora Farnese prima dell’arrivo in città della scultura, lavorando sulle stampe antiche e fu quindi l’unica manifattura in cui vennero realizzate Flore sia con il serto di fiori che con il bouquet, mantenendo inalterata la testa.
Partiamo dall’inizio della storia: il ritrovamento della scultura.
Rinvenuta durante scavi promossi dai Farnese sul finire del terzo decennio del Cinquecento, venne ritratta in un disegno di Maarten van Heemskerck (Berlino, Kunpferstichkabinett) durante la sua permanenza in città, tra il 1532 e il 1536; nel disegno è acefala, senza braccia e manca delle estremità inferiori.
Necessitava di un buon restauro; ma si aspettò più di un decennio, quando, giunto a Roma nel 1546 e incontrati i favori di Michelangelo, Guglielmo della Porta fu introdotto nell’entourage dei Farnese:
“et innanzi a ogni altra cosa gli fece restaurare alcune cose antiche in casa Farnese, nelle quali si portò di maniera, che Michelagnolo lo mise al servigio del papa [Paolo III]“ (Vasari, Vite 1568).
Un disegno attribuito a Girolamo da Carpi (1550 post, New York, Morgan Library), testimonia che la scultura a metà secolo non era ancora stata restaurata.
Non sappiamo in che anno e su suggerimento di chi la statua colossale di fanciulla, dall’abito leggero che aderiva al corpo nel suo incedere lasciando una spalla scoperta, fu trasformata da Della Porta in Flora, ma sappiamo che questa, una volta compiuta, venne collocata in una posizione di grande prestigio: nel vestibolo d’ingresso di Palazzo Farnese, dove era esposto l’Ercole (Rausa 2007, p. 44).
Da questo momento inizia la sua fortuna nei repertori romani di statuaria classica: dal 1562, Delle statue antiche che per tutta Roma … si veggono, nel testo nel quale è individuata “Nel Palagio nuovo del Revendiss. Farnese che sta tra Campo di Fiori e l’Trastevere. Entrando nel primo portico […]” alla celebre Raccolta di statue antiche e moderne di Paolo Alessandro Maffei (Roma 1704, tav. LI) dove viene riprodotta in una preziosa calcografia che servirà da modello per le riduzioni in bronzo e biscuit.
Le ultime vicende romane della collezione Farnese di sculture antiche furono improntate ad un susseguirsi tumultuoso di eventi; l’avvenimento di maggiore risonanza per le conseguenze culturali e la eco nei contemporanei, fu la decisione di Ferdinando IV di Borbone di trasferire l’intera raccolta di marmi antichi a Napoli nel 1786, ottenendo, più probabilmente estorcendo, a papa Pio VI Braschi il consenso.
Si lavorava di gran lena: venne immediatamente avviato un inventario redatto da Domenico Venuti, soprintendente alle antichità del Regno e direttore della manifattura di porcellana, per individuare lo stato di conservazione delle opere e stabilire quali potevano essere immediatamente imbarcate per Napoli e quali dovevano passare nello studio dello scultore Carlo Albacini per un restauro.
Flora fu una delle ultime opere a lasciare Roma, trattenuta nell’Urbe fino al 1800.
Durante il soggiorno nell’atelier Albacini la cinquecentesca mano con il serto di fiori, venne sostituita con un’altra che reggeva un bouquet.
Per quel che riguarda la testa le vicende sono più intricate: nel 1786 Albacini riceve una Testa femminile con diadema (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, MANN inv. 6268) che ben si poteva adattare, per gusto e dimensioni, a Flora (Prisco 2007, p.109).
E’ possibile che la bella testa di inclinazione michelangiolesca realizzata da Della Porta, che conosciamo attraverso le numerose incisioni, si fosse danneggiata, o, come è più probabile, non si confacesse al gusto coevo.
Forse qui è plausibile delineare un nuovo scenario.
Sulla scena archeologica romana di fine Settecento si era affacciato Ennio Quirino Visconti, erede spirituale di Winkelmann, diventato il grande vate della disciplina, che affrontava con una solida preparazione storico-filologica: voleva ritornare al fatto archeologico, anche attraverso la messa in discussione dei restauri errati.
Ebbene, Ennio Quirino Visconti affermò che la Flora Farnese non era Flora, ma una probabile rappresentazione della Spes (Speranza) il cui culto era attestato a Roma già in epoca arcaica, riproposto in età augustea come Spes Augusta, simbolo di prosperità per l’impero.
Noi sappiamo bene che la Flora non è Flora e che lo era diventata solo dopo il restauro di metà del Cinquecento fatto da Guglielmo Della Porta, ma a Napoli, alla fine del Settecento, dopo mezzo secolo di braccio di ferro con la corte papale per il trasferimento della collezione di marmi Farnese, doveva arrivare la Flora Farnese celebrata dai monumenta rariora. Senza cambi d’identità.
Perciò, seguendo questa ipotesi, il restauro dell’Albacini venne indirizzato al rafforzamento dell’iconografia della scultura colossale.
Per attivare questo programma c’era bisogno di una immagine classica riconosciuta incontrovertibilmente come Flora.
E lì il colpo di genio, forse messo in atto da Domenico Venuti, soprintendente alle Antichità del Regno di Napoli.
Era venuto alla luce durante le campagne di scavo nella villa di Arianna a Stabiae (odierna Castellammare di Stabia) un affresco rappresentate una Flora (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, MANN, inv. 8834): la fanciulla, ripresa di spalle, indossa un leggero abito, che le lascia una spalla scoperta, incede scalza e porta in un braccio, a mo’ di bouquet, una cornucopia colma di fiori; ha il capo ornato da un diadema.
L’incisione dell’affresco inserita nelle Antichità di Ercolano Esposte (tomo III, 1762, tav. V) era corredata da un ampio commento che identificava la fanciulla con Flora, moglie di Zefiro.
Il più sembrava fatto: Albacini adeguò la scultura monumentale all’iconografia dell’affresco stabiano – forse conosciuto attraverso l’incisione – impiegando la testa archeologica con il diadema e un bouquet d’invenzione.
Ma la saga delle teste di Flora era ancora lontana dalla fine.
La testa classica venne molto criticata, ritenuta troppo rigida nel modellato rispetto alla scultura, pertanto, nel luglio del 1796 venne smontata e spedita a Napoli.
Per farla breve quando la scultura colossale arrivò in città nel 1800 non sappiamo che testa avesse montata sul collo, forse una fatta da Albacini sul filo di lana, per completare il restauro.
Fatto sta che in un documento del 1807 (Napoli, ASN) si contano nelle collezioni del Real Museo Borbonico ben tre teste in marmo per la Flora: quella di Della Porta, una di Albacini e un’altra dello scultore napoletano Gennaro Calì.
La conclusione dell’intricata vicenda sarebbe arrivata qualche anno dopo.
Con l’avvento dei napoleonidi sul trono di Napoli, nel 1806, la Real Fabbrica di Porcellane di Napoli venne ceduta all’imprenditore svizzero Poulard Prad e il capomodellatore della manifattura Filippo Tagliolini, chiese ed ottenne un impiego al museo come modellatore in gesso di parti di statue archeologiche (Milanese 1998, p. 56).
Fu Tagliolini che portò a compimento l’impresa, realizzando la testa in gesso della Flora che ancora oggi possiamo ammirare.
Il testo di Patrizia Piscitello è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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