L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… le sculture di Luigi de Luca
La rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… che dal 9 marzo 2020 ci accompagna alla scoperta dell’arte riscontrando successo di critica e di pubblico, accoglie il punto di vista sulle opere di Capodimonte dei docenti universitari che hanno voluto dare il loro contributo per offrire ai nostri lettori il sollievo dell’arte durante questo ‘tempo sospeso’ di chiusura dei musei.
Oggi pubblichiamo il testo di Isabella Valente, docente di Storia dell’arte contemporanea, di Storia della fotografia e delle tecniche fotografiche e di Museologia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ci propone un viaggio tra le sculture di Luigi de Luca, testimonianza del gusto collezionistico di fine Ottocento, e del suo unico tormento l’amore per l’arte.
Una breve rielaborazione dell’intervento presentato nelle giornate di studi organizzate a conclusione della mostra Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere (21 dicembre 2018 – 15 ottobre 2019), a cura di Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, nell’Auditorium del Museo e Real Bosco di Capodimonte, che hanno proposto una rilettura delle collezioni, stimolando nuove esperienze e confronti ancora da scrivere.
Nel Museo e Real Bosco di Capodimonte sono conservate quattro opere dello scultore Luigi de Luca, testimonianza del gusto collezionistico di fine Ottocento, giunte nella raccolta museale in tempi diversi, tramite l’acquisto o la commissione di una versione definitiva da un modello originale.
Luigi de Luca nacque a Napoli il 28 novembre 1855, da Nicola e Marianna Catalano, cilentani di fede politica liberale che si erano trasferiti nella capitale in seguito ai moti antiborbonici.
Rimasto presto orfano, come egli stesso ricorda in un memoriale scritto in tarda età, trascorse il primo tempo nella più squallida miseria, sostenendosi prima come modellatore di figure presepiali in terracotta e di statue in cartapesta, poi come amanuense e fac-totutm presso lo studio di un avvocato.
Ma l’amore per l’arte, il suo unico tormento, lo condusse a frequentare lo studio di Stanislao Lista, il grande maestro del realismo.
Furono queste le sue basi formali: Lista lo indirizzò all’osservazione del vero e del reale che aveva vicino a sé, lo portò a modellare avendo davanti il modello vivo, a cogliere il respiro della vita che gli era intorno. E Lista intravide nel promettente allievo grandi prospettive.
Così fu. Pur essendosi iscritto tardi al Real Istituto di Belle Arti, il 15 novembre 1880, appena consolidata una certa condizione economica, s’impose subito come scultore sicuro.
La prima esposizione pubblica, cui prese parte, fu la XVI mostra della Società Promotrice di Belle Arti, dove propose una terracotta patinata a finto bronzo dal titolo Illusioni svanite-Figliuol prodigo.
Da allora partecipò con costanza alle mostre della Promotrice napoletana, da dove provengono le opere di proprietà di Capodimonte.
La prima scultura entrata nella raccolta museale in ordine di tempo è un piccolo bronzo intitolato In riva al mare, presentato alla Promotrice del 1887, assieme ad altre due opere, Ai campi in bronzo e uno Studio dal vero in gesso di un busto femminile.
Di pregiatissima fattura, il fanciullo di In riva al mare fa parte di quel novero di piccoli pescatori napoletani il cui microcosmo fu inaugurato, nelle arti plastiche, dal capolavoro di Vincenzo Gemito, il Giovane pescatore napoletano del Bargello, proposto prima al Salon des Beaux-Arts di Parigi del 1877 e poi all’Esposizione Universale della stessa città nel 1878, e proseguito dai due bronzi di Achille d’Orsi, A Posillipo e A Frisio, esposti alla Mostra Nazionale di Torino del 1880.
Di quei piccoli tuffatori che pescavano nudi nel mare di Napoli, riponendo la propria trouvaille nelle nasse o nelle reticelle che legavano direttamente intorno al ventre, fa parte il piccolo bronzo di de Luca, che mostra trionfalmente, con un pronunciato hanchement, il bel polpo pescato, i cui tentacoli sembrano ancora agitarsi.
Il pescatorello di In riva al mare rimanda all’Acquaiolo di Gemito del 1881, che già appare come una rielaborazione dei bronzi ellenistici pompeiani ed ercolanesi.
Del “marinarello di de Luca ben piantato, studiato, attraentissimo, come aristocratico ornamento di un’aristocratica sala”,
venduto durante l’esposizione, Casa Reale – fu riferito da un cronista – commissionò all’artista una riproduzione in bronzo (Il Pungolo, Napoli, 24-25 maggio 1887).
La perfezione veristica del giovane corpo si riflette nel trattamento delle superfici, nella fine cesellatura che segue, senza interruzioni e senza inciampare in alcun errore, l’andamento della luce sulla materia.
Dopo la prima stagione prettamente ancorata al realismo – il cui capolavoro si potrebbe riassumere nella figura di Lalia, la piccola protagonista dell’Assomoir di Émile Zola, tratta dai bassifondi di Parigi – de Luca, raccogliendo l’invito della critica del tempo a oltrepassare i confini del solo realismo per creare qualcosa di nuovo e d’impegnato, lavorò a un’opera che fu vista come il segno di una svolta.
Infatti, il realismo in scultura, che a Napoli era arrivato prima che nel resto d’Italia, allo scadere degli anni Ottanta era ormai entrato in crisi.
Il vento del simbolismo che soffiava dall’Europa, dopo la pubblicazione del romanzo À rebours di Joris-Karl Huysmans nel 1884, entrava così nella plastica dei napoletani, che mai, però, avrebbero rinnegato le salde radici realistiche.
La prima opera che riflette questa nuova temperie fu una giovane monaca, soggetto di Sogno claustrale, statua in gesso a figura intera esposta alla Promotrice del 1890, per la quale aveva posato la sorella di un falegname che aveva la bottega nel luogo dove lo scultore abitava.
Conservata in pezzi nella chiesa di San Gennaro, restaurata negli ultimi anni, è stata presentata per la prima volta nella mostra Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere (2018-19).
Poiché tutte le opere d’arte vivono diverse storie – storie del loro tempo e storie del nostro, oltre che del tempo di mezzo – anche quest’opera ha alle spalle una sua storia.
Per quanto applaudita, essa non ricevette il premio stanziato, che sicuramente avrebbe meritato, poiché quell’anno fu assegnato alla sola sezione di pittura: allora,
“Io non sapendo cosa fare del mio lavoro, lo donai alla Promotrice che lo incluse tra i premi ai soci. La mia opera fu scelta da Casa Reale ed ora si trova nella Pinacoteca del Palazzo reale di Capodimonte”
scrive l’artista nell’Autobiografia.
La critica ne lodò la linea larga, l’indovinata espressione dell’insieme, sottolineando che l’autore non si era fermato alla sola testa, ma aveva colto un momento dello spirito, era riuscito a dotare l’opera di un’anima: materia e spirito, idealismo e sensualismo, fremito e sentimento, erano i caratteri che alcuni critici misero in evidenza nell’osservare l’opera, ma, più in generale, nel considerare la nuova produzione dello scultore.
Sogno claustrale raffigura una giovane monaca ardente di desiderio, abbandonatasi alla lettura di un libro che parla d’amore, una fanciulla nel pieno rigoglio fisico che si ribella alla vita del chiostro.
Era il tempo in cui si vedevano circolare spesso nelle esposizioni suore, suorine e altri soggetti analoghi ambientati in chiese e monasteri, osservati dall’occhio indagatore degli artisti.
A Napoli, nel dicembre del 1885, l’editore Tocco aveva pubblicato la Suor Filomena dei fratelli De Goncourt, tradotta da Salvatore di Giacomo, con prefazione di Zola.
Patetiche eroine trafitte dal dolore, giovani vite spezzate, corpi contorti nelle sofferenze delle malattie, tormenti d’amore ed estasi, senza però perdere di fascino, sempre mantenendo un’accentuata sensualità, erano ora i soggetti della nuova scultura simbolista.
Alla Promotrice del 1891, alla quale sarebbe seguita poco dopo la Mostra Nazionale di Palermo, nella sezione di scultura – quell’anno particolarmente nutrita di lavori impegnativi e di grande formato – de Luca presentò un’opera che fece ancora più scalpore.
Sia a Napoli che a Palermo, de Luca propose un nudo muliebre al vero in gesso, intitolato la prima volta Cestilia alle murene, la seconda, Ad murænas.
Il suo immaginario si arricchiva dunque di un soggetto pompeiano tratto anche questa volta da un testo letterario: il poemetto Pompei di Luigi Conforti, pubblicato a Napoli da Pierro nel 1888, e riedito a Milano da Sonzogno nel 1899.
La conturbante bellezza di Cestilia, data in pasto alle murene, non poté non essere notata.
Era lei la vera eroina simbolista che meglio incarnava quell’idea di giovane e bellissima donna straziata dal dolore ma intatta nel corpo.
Era lei che, provocando ammirazione e turbamento, rientrava a pieno titolo nella scultura dei sensi, in linea con la letteratura erotica del tempo, ricordando ciò che Théophile Gautier dichiarò nelle sue memorie, quando, sorprendentemente, scrisse di aver sempre preferito la statua alla donna e il marmo alla carne.
Ispirata a un immaginario graffito pompeiano che recitava
“Cestilia, regina Pompejanarum, anima dulcis vale!”,
intorno al quale ruotava il nucleo centrale del poema, lo stesso Conforti rimase estasiato al cospetto dell’opera scultoria, che ritenne la perfetta incarnazione della sua visione di scrittore.
Tali concetti, comuni nelle tendenze estetiche d’oltralpe, si diffusero velocemente in Italia, non soltanto attraverso le traduzioni dei vari testi che circolavano mediante edizioni sempre nuove (si pensi al successo della Dame aux camélias di Dumas figlio), ma anche con la narrativa dannunziana, come Il piacere del 1889, Giovanni Espiscopo del 1891 o L’innocente del 1892.
Era evidente l’interesse degli scultori alle teorie decadenti sul dolore, sullo stato di prostrazione e sulla condizione di stordimento, per cui opere, che una volta rientravano nel puro realismo, trovavano ora un nuovo senso e una nuova ragione.
Il gesso, premiato a Palermo, fu fuso in bronzo nella fonderia Ciampaglia di Napoli ed entrò nella raccolta di Capodimonte nel Novecento, grazie a un acquisto ministeriale.
L’ultima opera di de Luca presente nel Museo e Real Bosco di Capodimonte è la Schiava in vendita del 1893.
Il repertorio dello scultore si completava così anche del tema orientalista.
Il gesso originale fu presentato alla XXVIII mostra della Società Promotrice di Belle Arti del 1893 e, conservato nella proprietà dell’artista, fu donato dai suoi figli negli anni Novanta del secolo scorso al Circolo Artistico Politecnico di Napoli, di cui de Luca fu un socio attivo.
Con la Schiava in vendita de Luca rielaborava figure e suggerimenti provenienti dal passato, sia dall’arte classica, sia da quella coeva.
Il tema non aveva mai trovato flessioni nel corso del secolo, percorrendo l’intero filone orientalista estetizzante europeo, dalla statuaria francese, e da alcuni pittori come Jean-Léon Gérôme, alla pittura inglese di Alma-Tadema e dell’ambiente della Royal Academy, alla scuola tedesca e a quella austriaca di Hans Makart.
Ma riecheggiava anche la linea delicata e la grazia, oltre che la soluzione formale, di alcuni precedenti illustri italiani, come la Psiche svenuta di Pietro Tenerani, del 1822 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), la Ninfa dello scorpione di Lorenzo Bartolini, del 1845 (Paris, Louvre), la Ninfa del deserto di Bartolini-Duprè, del 1836-52 (Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca).
Tuttavia, nella Schiava in vendita sembrano emergere anche alcuni riferimenti più vicini.
Ricorda, infatti, La moglie di Putifarre, tela di Domenico Morelli del 1861 (Napoli, Museo di San Martino), e la bagnante seduta del Frigidarium di Alessandro Pigna, del 1882 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna).
Sulla Schiava di de Luca si legge:
“È una bellissima figura di donna di una fattura fine ed elegante. L’espressione malinconica del volto risponde perfettamente ad un certo abbandono delle membra giovanili, virginee nella posa incoscientemente pudica. Nella tensione del braccio vi è una certa rilassatezza, che fa pensare e meditare. S’intuisce in quella muta espressione di dolore rassegnato il rimpianto di beni perduti, d’ideali distrutti. Il profilo è bellissimo…”
(la Tavola Rotonda, 15 gennaio 1893).
Il critico Goldberg la reputò l’opera migliore della sezione di scultura dell’esposizione.
Piacque anche a Federigo Verdinois, poiché mostrava nell’idea e nella forma di non cedere ad alcuna volgarità o blandizia.
Premiata con 600 lire dal Municipio di Napoli su proposta di Domenico Morelli, fu richiesta in bronzo da re Vittorio Emanuele III che quell’anno ricoprì la carica di presidente onorario della Promotrice.
Il bronzo, fuso nella fonderia Bracale, entrò nelle collezioni reali nel 1893, e oggi è dislocato presso la Polizia a cavallo nel Real Bosco di Capodimonte.
Luigi de Luca morì a Napoli il 6 marzo 1938.
La sua poetica, fondata sul realismo, nutrita di reminiscenze orientaliste e neopompeiane, non rimase insensibile al classicismo del passato, ripensato e rielaborato in una nuova concezione, moderna, perfettamente rispondente alle attese e al gusto del tempo.
Nel solco del realismo, infatti, egli innestò il fascino della traboccante linea barocca berniniana, del virtuosismo michelangiolesco, del purismo quattrocentesco rievocato dal simbolismo fin-de-siècle, giungendo a una sua scultura, originale, che merita oggi di essere riconsiderata, valorizzata e riapplaudita.
Il testo di Isabella Valente è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”
Leggi tutti gli articoli della rubrica
Leggi tutti gli articoli sul blog
Segui gli aggiornamenti sui nostri canali social