L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… la Liberazione delle opere d’arte durante la Seconda Guerra Mondiale
Oggi, 25 aprile, si celebra la giornata della Liberazione e per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Giovanna Bile dell’Ufficio mostre del Museo e Real Bosco di Capodimonte, ci spiega il ruolo delle opere d’arte durante la Seconda Guerra Mondiale e l’avvincente recupero dei capolavori oggetto dell’espropriazione messa in atto dai nazisti.
Al fronte con i soldati, nascoste o trafugate, distrutte, oggetto di campagne di salvataggio e centro d’interesse per lo spionaggio internazionale.
Quella delle opere d’arte durante il secondo conflitto bellico è una storia di guerra e di liberazione.
Per Mussolini l’arte è un veicolo di propaganda.
Privo di un sincero interesse personale, sostiene il futurismo, per l’appoggio all’interventismo bellico, e l’architettura razionalista, utile per le poderose campagne di risistemazione urbanistica a uso e consumo delle telecamere dei cinegiornali.
L’arte antica, invece, è strumento ineguagliabile di tessitura delle relazioni internazionali, simbolo di autorevolezza del regime e tramite per la diffusione ‘dell’italianità’ nel mondo.
Esemplificativa in tal senso è l’esposizione di Londra del 1930 Italian Art 1200-1900 alla Royal Academy di Londra, una delle più controverse nella storia delle mostre.
Un carico preziosissimo solca il Canale della Manica: 500 casse provenienti dall’Italia contenenti le opere di Botticelli, Piero della Francesca, Donatello, Giorgione, Tiziano, Tiepolo, Caravaggio e molti altri.
Da Capodimonte partono la Crocifissione di Masaccio e la Trasfigurazione di Bellini.
I primi contatti sono avviati tramite l’Ambasciatore a Londra direttamente con Mussolini, ben lieto di appoggiare il progetto, valutandolo produttivo per la portata propagandistica, per il consolidamento dei rapporti diplomatici con il Segretario agli Affari Esteri, e per un ritorno economico pari al 41% degli incassi.
Ettore Modigliani, Soprintendente alle Belle Arti della Lombardia e Direttore della Pinacoteca di Brera, viene designato Commissario generale dell’esposizione.
Le trattative iniziano senza il diretto coinvolgimento delle autorità italiane competenti in materia di prestiti d’arte: solo quattro mesi dopo il primo annuncio stampa diffuso nel febbraio del 1928 dalle pagine del Times, si avviano i primi contatti.
Il sottosegretario all’Educazione Nazionale, Emilio Brodero, scrive a Mussolini nel tentativo di dissuaderlo per la pericolosità del trasporto e per il rischio che alcune opere di collezione privata possano essere alienate all’estero; di uguale avviso il Direttore generale alle Antichità e Belle Arti, Arduino Colasanti “sgomento nel vedere l’elenco dei capolavori che si intendeva richiedere in prestito”.
Per superare ogni opposizione, Mussolini dirama una circolare ai prefetti d’Italia invitandoli a cooperare per la concessione delle opere senza eccezione alcuna.
La mostra, inaugurata il 1° gennaio 1930 viene visitata da circa 540.000 persone; i riscontri giornalistici sono sensazionali, ma è forte il dissenso dei tecnici di settore.
Il 30 gennaio 1933 Hitler diventa cancelliere del Reich, 11 anni dopo la marcia su Roma che aveva decretato l’avvento del regima fascista in Italia.
È un ammiratore di Mussolini: ne emula mosse politiche, gestualità, propaganda. Il 24 ottobre del 1936 viene firmato il protocollo di Berlino, con il quale si consolida l’amicizia tra Italia e Germania: è l’Asse Berlino – Roma.
Pochi mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, avvenuta tramite un plebiscito fortemente condizionato dalla campagna stampa, Hitler arriva in Italia.
Mussolini inizia a temere per le evidenti mire espansionistiche del Führer nell’Europa continentale, sorrette da un’economia solida e dalla potenza di fuoco dell’esercito tedesco.
In questo clima inizia un breve viaggio, dal 3 al 9 maggio 1938, durante il quale Hitler e Mussolini visitano le principali città d’arte: Roma, Firenze, Napoli.
Non mancano tappe a Galleria Borghese, con il cicerone di eccezione Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo avverso al regime fascista ma l’unico che sappia parlare tedesco, alle terme di Caracalla e alla Galleria degli Uffizi.
Hitler considera sé stesso un pittore, da giovane ne coltivava la passione, e, a differenza del duce, si lascia coinvolgere dallo splendore dei capolavori d’arte.
Dare vita a una Galleria Nazionale tedesca è da sempre un sogno di Hitler: ne scrive già a partire dal 1925, ma dopo la visita in Italia il suo progetto assume forma diversa.
Si sente «sopraffatto e sfidato dalla ricchezza dei musei italiani» e decide di costituire la più grande collezione di opere d’arte al mondo.
È il Führermuseum, da edificare a Linz su progetto dell’architetto Roderick Fick, a partire da schizzi dello stesso Hitler.
Nel giugno del 1939 viene nominato direttore del nascente museo Hans Posse, già direttore della galleria di Dresda, affiancato da Otto Kümmel, direttore dei Musei Statali di Berlino.
Nel 1940 i due approntano una prima lista di opere desiderate.
Hitler avversa le avanguardie contemporanee.
Nel luglio del ’37 organizza una mostra di arte degenerata: 650 opere di artisti quali Gustav Klimt, Otto Dix, George Grosz, Paul Klee accompagnate da scritte caustiche e provocatorie e senza alcun criterio di allestimento.
Se l’obiettivo è la messa alla berlina delle opere, il risultato è inaspettato: milioni di visitatori accorrono; il successo è straordinario.
Con l’arte antica, invece, il rapporto è di ammirazione, di compulsiva ricerca per ricostruire le fondamenta estetiche ed etiche del popolo tedesco; è ammesso tutto ciò che rispecchia gli ideali del nazionalsocialismo, con un occhio di riguardo alla produzione italiana rinascimentale.
Hitler condivide la passione per l’arte con il Feldmaresciallo Hermann Göring, ministro del Reich per l’aviazione, fondatore della Luftwaffe e vice del Führer.
Si definisce «un uomo del rinascimento» ed è ossessionato dal possesso delle opere come simbolo di lusso e di saper vivere.
Nel gennaio del 1937 Göring è a Napoli, ricevuto con la seconda moglie al Palazzo Reale dai principi di Piemonte, dopo una parata tra “vie pavesate di bandiere e affiancate da ali di popolo plaudente”, come riportano i cinegiornali dell’epoca.
Alla prima moglie, Carin von Kantzow, amata moltissimo e morta prematuramente nel 1931 di tubercolosi, Göring dedica la sua residenza estiva, Carinhall, lo scrigno per i tesori d’arte raccolti nel corso della sua carriera.
Inizia l’emorragia dall’Italia dei capolavori di collezione pubblica e privata.
In un primo momento l’espoliazione del patrimonio italiano avviene attraverso la forzatura del sistema ufficiale: il principe Filippo d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, tratta con il governo italiano per le opere personalmente richieste dal Führer.
Il Discobolo, copia romana dell’originale di Mirone, di proprietà della famiglia Lancellotti è la prima opera a lasciare l’Italia nel 1937.
Il principe d’Assia scrive al Ministero degli esteri e genero del duce, Galeazzo Ciano, “Il Governo del Reich per ordine del Führer e Cancelliere del Reich, è disposto ad acquistare dagli Eredi Principi Lancellotti la statua Lanciatore di disco al prezzo di lire 5.000.000″.
In quanto di rilevante interesse storico artistico la statua è notificata e dunque sottoposta al divieto di esportazione, sul quale si pronuncia a conferma il Ministro dell’Educazione Bottai, cui spetta la tutela sui beni culturali.
Le pressioni di Galeazzo Ciano sono però poderose: la partenza non può essere evitata.
L’opera viene presentata il 9 luglio 1938 nel Museo Glyptothek di Monaco.
È poi la volta del Ritratto di Uomo di Memling, oggi agli Uffizi, anche questo notificato e di proprietà del principe Andrea Carlo Corsini che si oppone alla vendita.
Il Ministro Bottai tenta nuovamente di opporre il rifiuto all’esportazione, come testimoniato dal carteggio con Galeazzo Ciano, culminante nell’accorato appello: “ritengo mio preciso dovere segnalarti che l’esportazione del Memling costituisce danno gravissimo e irreparabile per il patrimonio artistico nazionale. […] Il mio timore non è ingiustificato […] inserendosi in quello che ormai è divenuto un sistema abitudinario che minaccia di estendere all’Italia i procedimenti già da tempo in uso in Olanda, nel Belgio e nella Francia Occupata, e più recentemente, nella Slovenia, e nella Croazia. Alludo alla recente esportazione dei due stupendi Strozzi, del Magnasco, del Cavallino”.
L’esportazione avviene per interessamento dello stesso Mussolini nel giugno del 1941.
Tra marzo e agosto dello stesso anno partono con il sistema della compravendita due opere da Napoli: Santa Cecilia in estasi di Bernardo Cavallino, della collezione di Paolo Wenner ma proveniente dalla chiesa di Sant’Antoniello delle Monache, e il Ritratto di Giovanni Carlo Doria di Rubens della collezione Doria D’Angri.
Per aggirare i controlli doganali e dell’Ufficio esportazioni i viaggi avvengono su treni militari e con valigie diplomatiche, che godono di immunità e non possono essere né sequestrate né perquisite.
Sempre più sconfortato e disarmato il Ministro Bottai scrive sul suo diario “piccola battaglia con Mussolini per indurlo a prendere sul serio una mia relazione sulla politica artistica di guerra. In guerra – mi dice – non conosco che un’arte: l’arte della medesima… Scherza, ma io insisto: problemi di difesa di monumenti e collezioni, di eventuali rivendicazioni d’opere in altre circostanze storiche emigrate, di resistenza ai tedeschi che tendono a far man bassa di tutto”.
L’aggressività della politica tedesca nei mesi precedenti allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale induce molti direttori di Musei a predisporre dei piani di salvaguardia: in Francia nell’agosto ’39 Jacques Jaujard, direttore dei Musei Nazionali di Francia, attua lo sgombero del Louvre e il trasporto delle opere nei castelli di Chambord, Sourches, Saint-Blancard.
L’anno precedente, durante la guerra civile spagnola, aveva prestato la sua consulenza per l’evacuazione del Museo del Prado.
Sempre nel ’39 la maggior parte dei dipinti della National Gallery di Londra viene ricoverata nella cava di Manod, in Galles.
L’Ermitage di San Pietroburgo trasferisce le proprie opere sui monti Urali.
Il 1° settembre 1939 Hitler invade la Polonia.
Nonostante il Patto d’Acciaio firmato il 22 maggio dello stesso anno in cui si stabilisce il reciproco supporto in caso di guerra, Mussolini non si schiera immediatamente al fianco della Germania.
Lo farà solo il 10 giugno 1940, con il famoso discorso dal balcone di Palazzo Venezia.
Nel luglio del ’39, a soli trentaquattro anni, Bruno Molajoli, Soprintendente alle Gallerie della Campania, pianifica, a partire dal settembre dello stesso anno, le misure da adottare per la protezione delle opere d’arte in caso di guerra.
Il piano si divide in tre fasi: aggiornamento delle liste di opere da trasferire, classificate per pregio, o da proteggere in sede; individuazione di punti di raccolta, lontani da possibili bersagli sensibili, e adattamento dei sotterranei degli stessi siti museali; imballaggio e trasporto.
Le opere inamovibili sono protette in loco con l’uso di materassi in alga, paglia di vetro, lastre di amianto e strutture in legno ignifugato.
Le opere da trasportare sono suddivise in tre gruppi.
- Le più importanti da trasportare fuori Napoli con particolari accorgimenti (cassetta in zinco, doppio involucro di tela imbottita di ovatta, cassa in legno)
- Le opere di seconda scelta da trasportare con l’ausilio di furgoni imbottiti in modo da poterne contenere il maggior numero possibile
- Le opere di mediocre importanza o non in grado di reggere il trasporto per intrinseca fragilità, come i vetri e le porcellane del Museo Duca di Martina, da ricoverare nei sotterranei della stessa struttura.
Un primo ricovero viene individuato nell’Abbazia di Cava de’ Tirreni.
Partono i primi convogli.
Le misure di imballaggio previste per le opere di seconda scelta, per le quali si evita la cassa preferendo la velocità dell’uso di furgoni imbottiti e coperte di lana, sono estese anche alle opere di pregio.
In questa prima fase la Soprintendenza alle Gallerie della Campania trasferisce un totale di 15.961 pezzi, di cui dal Palazzo Reale di Capodimonte 6 dipinti, 38 arazzi, 2.168 ceramiche, bronzi e oggetti vari e dalla Pinacoteca Nazionale 902 dipinti, 971 disegni, 7 arazzi, 47 sculture e 502 oggetti vari.
Ma, dopo un periodo relativamente tranquillo, all’alba del 1° novembre 1940 ha luogo il primo bombardamento sulla città di Napoli della RAF, l’aviazione britannica.
Ai danni subiti dagli obiettivi strategici, prevalentemente concentrati nella zona industriale orientale della città, a Bagnoli e nei dintorni della stazione, si aggiungono quelli alla chiesa del Gesù Nuovo, dove sono distrutte due grandi tele di Ribera.
La situazione precipita a partire dal 4 dicembre 1942, quando iniziano i bombardamenti a tappeto.
Il 4 agosto 1943, la giornata più tragica, si contano i morti nei quartieri di Santa Lucia, Chiaia, Posillipo e nel centro antico.
È lo stesso giorno del bombardamento del Monastero di Santa Chiara.
Molajoli, accorso sul posto, scrive “vedemmo consumarsi fra le alte fiamme le sculture di Tino di Camino, di Giovanni e Pacio Bertini nel fuoco che aveva già divorato affreschi, le tele, gli ori cinquecenteschi di quello stupendo esemplare scenario del Barocco Napoletano”.
L’ultimo bombardamento è del 14 maggio 1944: 24.000 le bombe sganciate in 130 incursioni aeree, 22.000 morti, il 40% del patrimonio edilizio devastato.
In questo scenario la velocità d’azione è tutto.
Per ampliare la platea delle opere interessate all’evacuazione, si individua con prontezza un nuovo ricovero nel Palazzo Abbaziale di Loreto a Mercogliano, residenza dei monaci benedettini di Montevergine.
Alle opere dei musei, delle chiese e a quelle presenti a Napoli per la Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare, si aggiungono le 642 affidate dai privati alla Soprintendenza.
Contestualmente non si tralascia la sorveglianza sul territorio.
Le operazioni si svolgono sotto le bombe, nell’impossibilità di contatti facili e immediati.
Molajoli scrive nelle memorie di quei giorni: “finimmo col servirci di qualsiasi mezzo fosse più prontamente disponibile”, come nel caso di dieci grandi tele di Mattia Preti della Chiesa di San Pietro a Majella.
Per l’altezza del carico è necessario fermarsi per strada “per scansare [i rami] e, talvolta, per reciderli al fine di liberare il passaggio”.
L’esodo avviene in modo continuo e ininterrotto. Alla fine si contano 59.410 opere ricoverate, di cui 5.180 dipinti.
Il 23 luglio 1943 Molajoli va a Roma per informare il Ministero del pericolo incombente sui capolavori stipati nelle abbazie di Cava e di Montevergine, data la progressiva risalita degli alleati dopo lo sbarco in Sicilia.
Si decide di trasferire le opere di sommo pregio nell’abbazia di Montecassino.
Il 6 settembre parte il primo convoglio di cinque camion. All’alba dell’8 settembre, il secondo.
In tutto vengono trasportate 100 casse per un totale di 413 dipinti.
Da questo momento la Soprintendenza alle Gallerie viene sollevata da ogni decisione in merito al destino delle opere depositate a Montecassino.
Diversa sorte è toccata ai preziosissimi documenti del Grande Archivio di Stato: ricoverati a Villa Montesano a San Paolo Belsito, insieme ad alcune casse provenienti dal Museo Filangieri, sono andati distrutti per rappresaglia nazista il 30 settembre 1943.
Tra le carte gli archivi del Regno del periodo svevo, angioino e aragonese.
Sul fronte della politica, il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approva la mozione con la quale il comando delle Forze Armate è conferito direttamente al Re.
Mussolini viene arrestato e sostituito da Badoglio, il quale, l’8 settembre dello stesso anno, rende pubblico l’armistizio siglato con le forze angloamericane.
L’Italia precipita nel caos. La linea Gustav, tra Abruzzo e Lazio, divide il paese in due parti, a Nord la Repubblica Sociale Italiana di Salò e i tedeschi, a Sud le truppe Alleate.
A farne le spese anche l’intero apparato amministrativo del Ministero dell’Educazione Nazionale.
A Bottai succede il Ministro Biggini e la sede centrale viene trasferita a Padova, da dove parte l’ordine di convogliare lì le opere più rappresentative del patrimonio artistico italiano.
Così scrive Giulio Carlo Argan, allora giovane funzionario alle antichità e belle arti: “Il 9 ottobre il governo fascista, d’accordo con l’ambasciata tedesca, aveva ordinato di trasportare al Nord le gallerie romane. Fummo tutti d’accordo – noi del ministero e i soprintendenti – che l’ordine non si dovesse eseguire”.
Da questo momento le truppe nazionalsocialiste sono considerate forze di occupazione.
Terminano gli acquisti pilotati di opere d’arte e iniziano le razzie.
L’Abbazia di Montecassino ben presto si rivela un luogo insicuro: la linea Gustav, nuovo fronte di scontri, passa esattamente da lì.
Il 15 febbraio 1944 quattrocentocinquanta tonnellate di esplosivo dell’Aviazione Alleata radono completamente la più antica abbazia benedettina al mondo.
Ridotta in cenere anche la volta di Luca Giordano, della quale il Museo di Capodimonte conserva un bozzetto.
Ma Julius Schlegel, colonnello della divisione Hermann Göring, aveva precedentemente convinto l’abate Gregorio Diamare ad acconsentire al trasporto delle opere in un deposito di Villa Colle Ferretto, poco fuori Spoleto.
L’ultimo convoglio lascia Montecassino il 3 novembre 1943 e le casse movimentate sono 187.
Le opere sono salve.
L’ 8 dicembre 1943 avviene una prima cerimonia di consegna dei beni di proprietà della chiesa a favore di telecamera.
Il seguente 4 gennaio, a Piazza Venezia, si ripete la scena con la riconsegna allo Stato Italiano dei tesori bloccati a Spoleto, tra cui il dipinto di Capodimonte di Giovanni Paolo Pannini, Carlo di Borbone vista il Papa Benedetto XIV nella coffee house del Quirinale.
Però qualcosa non torna. Delle 187 casse partite da Montecassino, 15 non arrivano a Roma.
Ai funzionari che ne chiedono conto viene risposto che il convoglio è stato bloccato da raffiche di mitragliatrici.
In realtà sono già in viaggio per la Germania.
A Spoleto, infatti, era giunto Walter Andreas Hofer, fidato esperto d’arte del Feldmaresciallo Göring.
Non riesce a trattenere il suo stupore quando si trova davanti a Pieter Brueghel, Parabola dei ciechi; Battistello Caracciolo, Fuga in Egitto; Tiziano Vecellio, Danae e Ritratto di fanciulla; Giovanni Paolo Pannini, Carlo di Borbone a San Pietro; Filippino Lippi, Annunciazione; Joos van Cleve, Trittico; Colantonio, San Girolamo; Raffaello Sanzio, Madonna del Divino Amore; Claude Lorrain, Paesaggio con la Ninfa Egeria; Palma il Vecchio, Sacra Conversazione; Parmigianino, Antea; Sebastiano del Piombo, Madonna del Velo.
La decisione è immediata: le opere devono partire per la Germania.
Alcune di queste sono il regalo per il cinquantunesimo compleanno di Göring: il 12 gennaio 1944, durante il ricevimento organizzato nella sua residenza estiva Carinhall, il Feldmaresciallo apre i doni provenienti dalla sua divisione in Italia.
Quadri straordinari, ma tra tutti svetta la Danae di Tiziano, tanto desiderata da meritare il posto d’onore nella sua camera da letto.
L’idillio, però, dura poco più di un anno.
La guerra sta volgendo al peggio per i nazisti, ormai accerchiati dalle truppe angloamericane sul versante occidentale e dall’Armata Rossa a Est.
Per evitare che la sua amata dimora cada in rovina, il 28 aprile 1945 Göring ne ordina la distruzione, mentre le opere d’arte vengono ricoverate nelle miniere di salgemma di Altausse, nei pressi di Salisburgo, insieme a quelle che dovevano costituire la collezione del Führermuseum.
L’ordine di Hitler di distruggere anche la miniera con il suo contenuto viene disatteso dagli stessi minatori.
La guerra è ormai terminata.
Il 25 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale proclama l’insurrezione generale per tutti i territori occupati in Italia, Hitler si suicida il 30 aprile e dopo pochi giorni la Germania firma la resa.
Passano diversi mesi.
Squilla il telefono del nuovo Ministro della Pubblica Istruzione Vincenzo Arangio Ruiz.
Dall’altra parte della cornetta, i Monuments Men angloamericani: nelle saline vicino Salisburgo sono state rinvenute alcune opere italiane. Rodolfo Siviero, agente segreto e impegnato da anni della ricerca degli oggetti d’arte trafugati dai nazisti, viene incaricato del recupero.
Ci sono tutte le opere. Certo con molti danni causati dall’ambiente in cui erano conservate: il Ritratto di fanciulla di Tiziano è ricoperto di muffa, la Sacra conversazione di Palma il Vecchio ha la tavola fortemente imbarcata. Ma ci sono tutte.
Il 13 agosto 1947 rientrano in Italia per una mostra a Roma organizzata a Palazzo Venezia. Poco dopo arrivano a Napoli. Tra queste, Danae, sfuggita alla camera da letto di Göring per tornare accanto al ritratto di Alessandro Farnese che l’aveva voluta per sé.
La vicenda non finisce qui.
Rodolfo Siviero continua a impegnarsi ben oltre la fine della guerra nella sua meritoria azione di recupero delle opere, sia di quelle depredate nel periodo di maggiore tensione bellica, sia di quelle partite prime del ’43 con il dubbio iter legale: tra queste, in particolare, la Santa Cecilia all’organo di Bernardo Cavallino, rientrata in Italia e assegnata al Museo di Capodimonte solo nel 1984.
Tutt’oggi mancano ancora 1.645 opere provenienti da collezioni e musei europei, sottratte e mai più ritrovate.
Ma delle 59.410 ricoverate da Molajoli, nessuna manca all’appello.
Il testo di Giovanna Bile è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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