L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… il Tiziano napoletano
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Andrea Zezza, docente di Storia dell’arte moderna alla Seconda Università degli studi di Napoli e membro del Comitato Scientifico del Museo e Real Bosco di Capodimonte, ci parla dell’Annunciazione di Tiziano esposta nella collezione delle Arti a Napoli del museo, proveniente dalla Cappella Pinelli della chiesa napoletana di San Domenico Maggiore.
La storia di un’opera dalla vibrante ricerca luministica raccontata nel contesto storico che l’ha voluta.
Un museo, si sa, non è una cosa staccata dalla città che lo contiene: conserva una scelta, cose ritenute tra le migliori che nella storia quella città ha prodotto, ha ospitato o è stata in grado di procurarsi.
La meravigliosa collezione Farnese divisa tra il Museo Archeologico e Capodimonte non è solo la raccolta di una famiglia giunta fortunosamente e abilmente al papato in uno dei momenti più ricchi della storia culturale italiana, ma è anche la traccia della scelta di uno dei governanti della città, un giovane re giunto da lontano, di puntare anche sulle arti e sulla cultura per fare della sua città di adozione una grande capitale europea, rendendo pubblica la sua collezione familiare insieme alle meraviglie dormienti dell’antichità che il sottosuolo di Ercolano e di Pompei cominciava a restituire.
A Carlo di Borbone e alla sua famiglia dobbiamo la presenza a Napoli dei capolavori di Correggio, Parmigianino, Raffaello, Michelangelo, dei Carracci che tutti conoscono, e anche la presenza di alcuni tra i quadri più noti e più importanti della piena maturità di Tiziano, come la Danae e il Paolo III e i nipoti.
Altri capolavori di Capodimonte hanno una storia meno nota, ma non meno interessante: è il caso di un altro Tiziano, un quadro più tardo, dipinto dal maestro quando ormai era anziano, ma ancora straordinariamente inventivo.
È l’Annunciazione, oggi al secondo piano del museo, lontana dai dipinti Farnese perché arrivata al museo da una chiesa napoletana, San Domenico Maggiore.
San Domenico è l’unica chiesa al mondo ad aver conservato insieme dipinti di Raffaello, Tiziano e di Caravaggio: tre dei maggiori artisti della storia dell’umanità.
Era una chiesa molto particolare, una delle maggiori dell’ordine dei domenicani, sede universitaria e di studi, da cui passarono San Tommaso d’Aquino, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, ma era anche la chiesa in cui si riunivano e si confrontavano le grandi famiglie di quella zona della città: i Brancaccio, i Carafa, i D’Aquino, i Gesualdo… allora radunate in una delle sei circoscrizioni, o seggi, in cui era divisa la città: il seggio di Nilo o di Nido, una delle più orgogliose, il sui stemma era un cavallo sfrenato, stemma che anticamente era dipinto in enormi dimensioni sul muro della chiesa che dà sulla piazza.
Alla metà del Cinquecento, quando Tiziano era già una leggenda, il pittore davanti al quale Carlo V – il sovrano sul cui impero il sole non tramontava mai – si era chinato a raccogliere il pennello, tra le orgogliose nobili famiglie napoletane si insediano dei nuovi arrivati: genovesi per lo più, diventati ricchi come i signori della Wall Street o della Silicon Valley di oggi, grazie al commercio delle sete calabresi e soprattutto alle attività finanziarie.
Tra questi si distingueva un anziano banchiere, Cosimo Pinelli, che aveva fatto fortuna al punto che le sue ricchezze erano diventate proverbiali a Napoli:
“quando si vuole significare una ricchezza inaudita si dice haverci […] li denari di Cosimo Pinello”.
Pinelli aveva risorse in abbondanza per compare feudi, titoli e palazzi, ma non avrebbe completato il suo inserimento nella Alta Società del tempo senza una decorosa cappella familiare.
Poiché era abituato a pensare in grande, la volle nella chiesa di San Domenico, in mezzo a quelle delle più antiche e orgogliose famiglie napoletane, e volle sull’altare un quadro di Tiziano, il pittore del re.
Ottenerlo era tutt’altro che facile, ma Cosimo aveva, oltre ai soldi, altre carte importanti da giocare: era amico e finanziatore del Viceré – e Tiziano da vent’anni aspettava una pensione promessa dal re, ma che avrebbe dovuto essergli pagata dal bilancio napoletano – e aveva in Veneto un figlio, Vincenzo, grande studioso, che si era inserito negli ambienti giusti per avvicinare il pittore.
Così il quadrò arrivò e fu ospitato in una cappella-scrigno fatta apposta per lui, e – cosa inusuale per un Tiziano – incontrò le critiche dei signori locali che è facile immaginare piuttosto invidiosi: “l’angelo è troppo grasso!”, al punto che se ne dovette organizzare una difesa pubblica.
In realtà tutto nella cappella allestita dal Pinelli era eclatante: l’architettura all’antica, con un frontale a tempietto che inquadrava il dipinto, la cupoletta ovale arricchita di stucchi, il pavimento e le pareti incrostate di marmi bianchi e colorati. Poiché lo spazio di chiesa acquistato non era abbastanza, lo si ampliò, sfondando i muri perimetrali della chiesa fino a rendere pensile la cappella, con una superfetazione che ancora oggi sporge su via San Domenico.
Non sappiamo da chi tutto ciò fu orchestrato, ma certo il dipinto fu al centro del progetto, e Tiziano non si risparmiò.
Il quadro che arrivò era perfetto: la luce proveniente dalla finestra di sinistra (una cappella con finestre laterali è tutt’altro che comune, ma questa era stata fatta su misura!) accompagnava con un fascio di luce l’ingresso di Gabriele, cosicché, come scrisse immaginosamente Roberto Longhi – riscoprendo il quadro sporco e dimenticato nella cappella da cui non si era mai mosso:
“il gran fiorone dell’angelo preso dall’ombra nel gran boccio del viso s’impiuma nelle ali di dolce torpidezza,… le linee del volo nella veste hanno andari ellitici allentati e sfocati, e così lenti sono il moti della casacchetta di paradiso che un disegno leggero di broccatello ha il tempo di screziarla, come la natura ha tempo di operare miracoli in un fiore a lento sboccio… Qui Tiziano ha trovato anche la sua forma, ma quanto intelletto ha dovuto riassorbire nella propria visione, per permettersi questo nuovo romanticismo!”
Dal lucernaio del cupolino scendeva con un altro raggio di sole,
una sopraggiunta irrequietezza come da cieli dirotti a fatica, accende vampe imprecise fra gli umori delle terre, e sa di amalgami d’inferni e di paradisi egualmente perduti mentre fumate lente bruciano d’incensi tutta la scena e la velano e la svelano.
Un quadro che anticipa sensibilità barocche, e infatti piacque a Luca Giordano, che riuscì a fare di una copia, oggi in San Ginés, a Madrid, un altro capolavoro.
A Capodimonte il quadro, lontano dalla cappella di origine, ed anche dai più limpidi Tiziano farnesiani, racconta non solo la propria bellezza, ma anche questa storia di antiche nobili e ricche competizioni per l’abbellimento della città, svolte in spazi privati ma di fruizione pubblica, e trova modo di confrontarsi col più bel quadro dipinto da un artista napoletano nel Cinquecento, l’altra Annunciazione dipinta da Francesco Curia, pittore che non poca ispirazione trasse dall’esempio del vecchio maestro cadorino, stravolgendone però del tutto senso e i modi, come i grandi artisti sanno fare.
Ma questa è un’altra storia, che forse potremo raccontare un’altra volta.
Per chi volesse saperne di più:
Roberto Longhi, Giunte a Tiziano, L’Arte, XXVIII, 1925, p. 40-50, poi in Saggi e ricerche 1925- 1928, Firenze 1967, I, pp. 9-19.
Bartolomeo Maranta, Discorso all’Ill.mo Signor Ferrante Carafa Marchese di Santo Lucido in materia di pittura, nel quale si difende il quadro della cappella del Sig. Cosimo Pinelli, fatto per Tiziano, da alcune opposizioni fattegli da alcune persone, in Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, I, Milano, 1971, pp. 863–900 e 1110
Alessandro Ballarin, Tiziano, Firenze 1968.
Andrea Zezza, Da mercanti genovesi a baroni napoletani: i Pinelli e la loro cappella nella chiesa di san Domenico Maggiore, in Estrategias culturales y circulación de la nueva nobleza en europa (1570-1707), a cura di Giovanni Muto y Antonio Terrasa Lozano, Madrid 2016, pp. 95-110.
Il testo di Andrea Zezza è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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