L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… il Tesoro dei Farnese: la Galleria delle cose rare
Anche oggi per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Linda Martino, Chief Curator del Museo e Real Bosco di Capodimonte e responsabile delle arti decorative che ha curato la ricomposizione e lo studio di questa raccolta, ci conduce alla scoperta del “Tesoro” dei Farnese.
Il secondo appuntamento online con la storia della “Galleria delle cose rare”: uno straordinario insieme di oreficerie, argenti, cristalli di rocca, maioliche, bronzi e bronzetti, placchette, medaglie, ambre, avori, pietre dure, cere e manufatti realizzati in materiali bizzarri e curiosi, collezionati nell’intento di suscitare meraviglia.
La collezione farnese contiene anche un insieme molto interessante di opere di manifattura tedesca che presentano diverse analogie con quelle collezionate dai Medici a Firenze.
Questa corrispondenza di gusto e di scelte collezionistiche si spiega, forse, con il matrimonio (1628) tra Odoardo Farnese (1612-1646) e Margherita dei Medici (1612-1679), figlia di Cosimo II e di Maria Maddalena, Arciduchessa d’Austria, sorella dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando II.
La loro unione ebbe il preciso significato politico di porre fine alla secolare inimicizia tra i Medici e i Farnese e di portare nuovamente questi ultimi nell’ambito imperiale tedesco.
Non c’è quindi da meravigliarsi che i principi tedeschi inviassero i doni delle loro terre alla coppia ducale.
Tra questi possiamo includere la Diana Cacciatrice in argento dorato, un’opera che ben si addice a un dono principesco.
Il trofeo, utilizzato in occasione di raffinati banchetti di corte, era munito di un meccanismo racchiuso nella base ottagonale che gli consentiva di spostarsi sulle tavole imbandite, secondo un percorso geometrico; la testa smontabile, fungeva da coperchio e da coppa e l’interno era completamente dorato per poter contenere il vino che veniva bevuto dal commensale davanti al quale, finita la carica, il gruppo si fermava.
Di questo prezioso oggetto, siglato JM – riferibile a Jacob Miller Il Vecchio (1548-1618), orafo di Augusta – si conoscono circa trenta esemplari, eseguiti per mano di diversi artisti attivi nel noto centro tedesco, tra gli ultimi decenni del XVI secolo e i primi del successivo.
Per il suo uso conviviale, il gruppo, ebbe una notevole diffusione presso i raffinati centri europei di cultura tardo manieristica.
Anche la presenza di oggetti di ambra in una collezione principesca del Cinque e del Seicento è indizio di un legame con la Germania: nella parte settentrionale del paese il prestigio della preziosa resina era infatti tale che divenne il simbolo del potere, al punto di essere definita l’“argento di Prussia”.
L’uso dell’ambra del Baltico, monopolio dei duchi di Brandeburgo, data la sua rarità veniva pertanto limitato quasi esclusivamente ai doni ufficiali.
Tra questi omaggi possiamo, verosimilmente, includere Il Calice, databile alla seconda metà del Cinquecento: un pregevole esempio della più antica lavorazione cinquecentesca di ambra, di cui Konigsberg, capitale della Prussia, fu il principale centro propulsore.
Documentato, nel 1587, nella Guardaroba di Ranuccio I (1569-1622), potrebbe essere un oggetto appartenuto alla nonna del Duca, Margherita d’Austria (1522-1586), forse ricevuto in dono dal padre naturale, Carlo V, Imperatore del Sacro Romano Impero, o in eredità dal primo marito Alessandro dei Medici, Duca di Firenze.
Margherita, come è stato già detto nella prima parte di questa storia, sposa in seconde nozze (1538) Ottavio Farnese (1524-1586), padre di Ranuccio I; quest’ultimo raccoglie nella sua “Guardaroba” molto probabilmente anche gli oggetti appartenuti alla nonna, morta in Abruzzo nel 1586.
Un considerevole numero di ambre della seconda metà del Seicento è menzionato nell’inventario stilato dopo la morte (1693) di Maria Maddalena Farnese, erede della collezione della madre Margherita dei Medici, che si spense a Parma nel 1679.
Delle opere presenti nella lista, sono giunte fino a noi soltanto la Sacra Famiglia – tra le più belle produzioni della Bottega di Christoph Maucher (1642-1705) a Danzica – e la Coppia di candelieri attribuiti a una delle botteghe artigiane del Seicento dello stesso centro di produzione.
Non può stupire, inoltre, per questi stessi legami dinastici, che il tesoro Farnese contenga anche oggetti in pietre dure, provenienti dalle botteghe granducali fiorentine: meravigliosi piani di tavoli con motivi geometrici e floreali, pannelli con decorazioni assai veristiche di paesaggi, uccelli, animali e scene di caccia, adoperati nella decorazione di mobili.
E due Cassette da rimedi in ebano, impreziosite da rilievi di frutta e fiori, realizzate nelle Botteghe Granducali di Firenze, tra la fine del XVII secolo ai primi decenni di quello successivo: manufatti prestigiosi destinati dalla corte medicea alla “politica dei doni” offerti molto probabilmente a Margherita dalla sua famiglia di origine ed ereditati dalla figlia Maddalena dopo la sua morte (1679).
E un’acquasantiera da camera con la Madonna e l’arcangelo Gabriele Annunciante priva dell’originaria vaschetta d’acqua di agata e delle legature in argento dorato.
La composizione riprende quella di un famoso affresco trecentesco della chiesa fiorentina della SS. Annunziata, immagine cui era particolarmente devoto Cosimo III dei Medici, Granduca di Toscana (1670-1723).
Molti dei magnifici doni di pietre dure che egli inviava ai regnanti di Europa avevano come tema l’Annunciazione.
Per quanto riguarda gli avori la presenza di oggetti tedeschi e fiamminghi nella collezione Farnese derivava o dal mecenatismo, per commissione diretta agli artisti, o per collezionismo, dovuto ad una appassionata politica di acquisti.
Numerosi artisti nordici attraversavano l’Italia diretti a Roma per studiare i famosi reperti antichi, fermandosi, lungo il percorso, presso le varie corti, ovviamente dove c’era possibilità di lavoro; e molti principi, tramite i loro agenti all’estero, si procuravano opere di pregevole fattura in quel raro materiale.
Com’è noto, proprio nel Seicento, ci fu una ripresa dell’intaglio eburneo, sia grazie alla rinnovata disponibilità dell’avorio elefantino – garantito in Europa dall’importazione olandese – sia per l’affermarsi della sensibilità tutta barocca nei confronti delle potenzialità stilistiche offerte dal prezioso materiale, che in molti casi gli intagliatori tedeschi accostavano al legno, o al corno di cervo per realizzare oggetti stravaganti.
Un esemplare tipico è il Bacile con scene dalle metamorfosi di Ovidio di Johann Michael Maucher (1645-1700), tra gli oggetti d’arte citati dal Marchese de Sade a Capodimonte, nel 1776, nella diciassettesima sala:
“parecchi busti, un grande piatto d’avorio, ornato di bassorilievi divini”
(De Sade, D.A.F Opere complete. Viaggio in Italia (1776), ed. cons. Roma, 1993, p. 262).
L’artista, membro di un importante famiglia di intagliatori attiva in Germania, è noto per aver eseguito una serie di piatti da pompa in corno e avorio molto simili ai nostri, tra cui quelli conservati al Kunstgewerbemuseum di Berlino, che risultano firmati.
Sono presenti nella nostra raccolta anche diversi cilindri di boccale di avorio – ricavati da una sezione orizzontale e vuota della zanna – che hanno, purtroppo, perduto le montature in argento dorato che li impreziosivano.
Due coppe di cultura fiamminga, databili alla seconda metà del Seicento, recano scene di putti classicheggianti, tema iconografico molto diffuso dallo scultore fiammingo Duquesnoy (1597- 1643), tra i massimi esponenti del Barocco romano; gli altri due pezzi, di particolare bellezza, sono, invece, di manifattura tedesca.
Il primo è intagliato con una elaborata scena mitologica in stile rubensiano che si ispira, per la composizione molto complessa, alla maniera di George Petel (1601-1635), artista bavarese di nascita, ma formatosi a Roma e a Bruxelles, dove lavorò con Rubens (1577-1640).
Il secondo con scena di battaglia è riconducibile all’attività di Johann Michael Hornung (1646-1706), scultore tedesco autore di numerosi altri boccali con immagini di combattimento tra cui quelli firmati per esteso del Landesmuseum di Darmstadt e del castello di Waldenburg.
Spesso gli intagliatori nordici realizzavano anche riduzioni in avorio di opere celebri del Bernini (1500-1571), il massimo protagonista della cultura figurativa barocca, e di altri scultori del marmo e del bronzo: della nostra raccolta farnese è il Cristo alla colonna derivato dal celebre gruppo della Flagellazione elaborato dall’Algardi (1598-1654) di cui si conoscono numerose redazioni autografe e derivazioni; e il Nettuno di Adam Lenckhardt (1610-1661), famoso maestro tedesco lungamente attivo alla corte Imperiale di Vienna, derivato probabilmente dai piccoli bronzi di analogo soggetto realizzati da Tiziano Aspetti (1559-1606), Giambologna (1529-1608) e Alessandro Vittoria (1525-1608), a cavallo fra Cinque e Seicento.
Accanto alle cere raffiguranti Anima dannata e Anima che spera, modellate dalle abili mani del ceroplasta siciliano Giovanni Bernardino Azzolino (Cefalù ca. 1572 – attivo a Napoli dal 1594 al 1645) – databili tra la fine del XVI e la prima metà del successivo – colpiscono, per l’abilità dell’esecuzione anche le cinque cassette con intagli minutissimi in legno di lattice, raffiguranti Scene di caccia e Episodi tratti dalla vita dei santi Eustachio e Antonio.
Attribuite da Enrico Colle (Microintagli, Milano 2001, pp. 16-17) a manifattura emiliana della fine del Seicento, sono un vero e proprio miracolo di virtuosismo tecnico e di originalità, forse commissionate dai Farnese per esporle direttamente nella “Galleria delle cose rare” con il solo scopo di suscitare meraviglia nel visitatore.
Arricchiscono la raccolta finanche manufatti preziosi di provenienza esotica che la principessa Maria di Portogallo (1538-1577), cugina prima di Filippo II di Spagna, portò con sé in occasione del suo matrimonio (1565) con Alessandro Farnese, detto il Condottiero (1545-1592).
Una dote ricca di oggetti preziosi: materiale raro di manifattura cingalese, indiana e africana, così rilevante che durante il viaggio la futura sposa non dormiva temendo l’incolumità dei suoi tesori.
Soltanto tre esemplari, ma di grande raffinatezza, sono giunti fino a noi: la Coppia di Ventagli di avorio, di manifattura singalo-portoghese della seconda metà del Cinquecento, provenienti da Ceylon ed eseguiti, secondo un’ipotesi della Jordan Gschwend, (Zurigo 2010, pp. 80-82) come dono diplomatico alla regina Caterina d’Austria (1533-1572) figlia dell’Imperatore Ferdinando I; portati in Italia dalla principessa, rimasero al Palazzo Farnese di Roma fino al 1760, per poi essere trasferiti direttamente a Napoli.
I due ventagli, in forma di flabelli – oggetti liturgici che servivano durante le celebrazioni a scacciare le mosche e altri insetti – sono tipologicamente assai simili a un esemplare del Kunsthistorisches Museum di Vienna della stessa epoca.
E la preziosa Coppa, in corno di rinoceronte, argento dorato e smalto, che lo zio della principessa Maria, Costantino di Braganza – viceré in India dal 1558 al 1561 – commissionò a un artista indo-portoghese della colonia di Goa o Cochin, come dono di nozze alla nipote, per le virtù afrodisiache attribuite al materiale.
Nel XVI secolo, era, infatti, buona consuetudine regalare alla sposa una coppa simbolo di prosperità e fertilità e, in questo caso, di un materiale scelto oltre che per la stranezza esotica soprattutto per le sue virtù terapeutiche.
Da tempi immemorabili le credenze e la farmacopea dei Paesi orientali attribuiscono, infatti, al corno di rinoceronte incredibili virtù afrodisiache e terapeutiche di vario genere.
In Cina, invece, il rinoceronte, nonostante la sua reputazione di animale irascibile e lento d’intelletto, divenne bensì simbolo di carattere solido e saggio; e coppe come le nostre di collezione farnese, di epoca Kangxi (1622-1772), furono strettamente associate allo status simbol di un vero gentiluomo cinese.
Perfino manufatti provenienti dal Nuovo Mondo arricchivano, infine, la collezione delle “cose rare” a conferma dell’interesse dei Farnese per oggetti provenienti da terre lontane e sconosciute.
A Capodimonte ne sono approdati soltanto tre di manifattura azteca, di difficile datazione, che attendono di essere studiati dagli specialisti della materia: la Ranocchia in diaspro e ossidiana che era probabilmente, un oggetto votivo relativo al culto di Tlàloc, il dio della pioggia e del fulmine, la principale divinità adorata dagli aztechi; per il suo valore veniva gelosamente custodita – in un astuccio rivestito di velluto – già nel 1566, nel Palazzo Farnese di Caprarola e, circa un secolo dopo (1644), in quello di Roma; la statuetta, in pietra calcare, raffigurante il dio azteco della guerra, detto Huiltzlochtli, acquistata dal Museo di Parma (ante 1708) – come attesta un’iscrizione sul pezzo – e quella in giada raffigurante un Antenato.
Questo insieme straordinario di manufatti farnesiani – vanto di cardinali, di duchi e di principesse in Roma, Caprarola e a Parma, e oggi vanto di Capodimonte – costituisce una delle raccolte d’arte decorativa rinascimentale e barocca tra le più importanti d’Europa e documenta la raffinata sensibilità e l’altissimo livello di civiltà che maturarono nella Corte farnesiana, tra Rinascimento e Barocco, non solo nel campo della pittura e della scultura, ma anche in quello delle arti decorative.
Il testo di Linda Martino è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”
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