Diego Cibelli racconta la mostra L’Arte del Danzare assieme
La mostra Diego Cibelli. L’Arte del Danzare assieme (13 maggio – 19 settembre 2021) al Museo e Real Bosco di Capodimonte, a cura di Angela Tecce e Sylvain Bellenger, è inserita nel ciclo di mostre-focus “Incontri sensibili” in cui artisti contemporanei dialogano con la collezione storica del Museo e Real Bosco di Capodimonte.
La sensibilità artistica di Cibelli e la sua ricerca danno vita a una esposizione di grande impatto e di assoluta raffinatezza che cattura lo spettatore e lo invita a sentire e riflettere sulla intima connessione tra l’uomo, il paesaggio, la storia.
Un dono eccezionale confrontarsi con la collezione di Capodimonte. Un incontro magico che porta alla continuità in ogni sua manifestazione. La bellezza è la voce che ci racconta chi siamo e dove andiamo, è l’eternità. (Diego Cibelli)
Cibelli riesce a ricreare un tessuto di sensibilità che era proprio del Settecento. Ci immerge in uno spazio tutto contemporaneo che è diventato altro. (la curatrice Angela Tecce)
Una mostra che è tre mostre in una, grazie alla straordinaria sensibilità di Diego Cibelli che ci aiuta ad esercitare un nuovo sguardo sulle opere, le sue creazioni, le stampe, le porcellane (il Direttore Sylvain Bellenger).
L’artista racconta i suoi studi, la sua capacità di danzare con i luoghi e le culture e di assemblare un bouquet di bellezze diverse.
La sua ispirazione, le sue opere che sussurrano nelle orecchie storie di relazione tra uomo e ambiente.
Una ricerca emozionale, un invito a Danzare assieme.
Diego Cibelli si racconta
Fin da bambino ho avuto un’attrazione per il bello e l’arte.
Ho avuto la grande fortuna di viaggiare molto, già a dodici anni visitavo le capitali europee. Al Centre Pompidou o nei grandi musei di Londra, non mi sono mai sentito piccolo, parlavo sempre con quella bellezza.
Non ho mai avuto un senso di estraneazione di fronte ad essa. Anzi, metaforicamente ballavo con questa magnificenza. Questa consapevolezza mi ha fatto comprendere che l’arte era il percorso che volevo intraprendere e che ero pronto a fare sacrifici per questo, con uno spirito leggero, anche molto fresco.
Dedico la mia vita alla ricerca, mi lascio completamente assorbire.
Quando inizio una produzione, è sempre preceduta da una fase di studio.
Ho investito tutto sulla mia formazione, studiato moltissimo perché sapevo che dovevo puntare su questo e così è stato.
Ho frequentato il liceo artistico poi ho proseguito i mie studi all’Accademia delle Belle Arti. I primi tre anni li ho eseguiti a Napoli e poi mi sono trasferito a Berlino dove ho fatto una tesi sperimentale in geografia umanistica.
Mi interessa studiare il rapporto uomo-paesaggio. Al riguardo cito sempre la definizione che l’Unione Europea dà del paesaggio: “Il paesaggio nasce nella percezione dell’individuo. Quindi prendersi cura del paesaggio, vuol dire prendersi cura della percezione dell’individuo”. Sono due soggetti opposti, paesaggio e individuo che vengono messi sullo stesso piano.
I territori sono qualcosa di altamente formativo.
Il territorio si iscrive sui nostri volti e tramite esso noi riceviamo una prima base che ci aiuta istintivamente a sentire il mondo intorno a noi.
Le tradizioni nella loro dimensione macro si iscrivono nei luoghi e grazie alla nostra capacità di assorbire i luoghi, finiamo per ereditare le forme e riti presenti in un luogo.
Spesso definisco la mia ricerca sia in base alla formazione che ho eseguito ma anche in termini di luoghi che ho interiorizzato.
Certi luoghi mi richiamano. Altri li attraverso senza alcun pensiero di ritorno.
Napoli è certamente un luogo che ha inciso tanto nella mia formazione.
Le persone credono che Napoli sia un perfetto luogo per osservare e vivere il passato ma io invece credo che in questa città si siano sempre prodotte tradizioni ed esperienze contemporanee.
Il valore del contemporaneo di questa città risiede proprio nella sua capacità di essere una cultura che si è sempre posta in una condizione di dialogo e di confronto, questa sua capacità di assorbire le stratificazioni le conferisce la capacità di produrre pensieri e azioni universali che hanno in se il valore del meticcio.
Ecco, questo per me significa produrre esperienze contemporanee.
Avere la curiosità di conoscere e di dialogare sempre con più luoghi.
Ricercare le culture attraverso i loro oggetti materiali, ‘scavare a fondo in ciò che rende ogni fiore così unico, e fare collegamenti tra tutti i fiori, assemblando un bouquet di bellezze diverse’.
Finita l’Accademia delle Belle Arti ho poi ripreso gli studi di design del prodotto. Mi hanno sempre affascinato i vari significati che si nascondono dietro a un oggetto, sono sempre stati forme di testimonianza. Hanno sempre espresso la volontà dell’uomo, una metafora del percorso che vuole intraprendere. Basti pensare alle frecce preistoriche, su cui venivano incisi alcuni simboli, in cui si chiedeva perdono per quell’atto di brutalità con cui l’uomo uccideva gli animali.
Quindi è bello vedere come gli oggetti hanno sempre inglobato quei desideri e speranze. Ho studiato design perché pensavo che potesse darmi un metodo per la mia ricerca. L’Accademia ed il liceo artistico danno quella possibilità di poter spaziare tantissimo dal punto di vista delle tecniche, per me è importante avere un metodo. Mi piace immaginare che l’opera d’arte debba stare vicino alle persone.
Perché se parla del rapporto uomo e ambiente e della storia, non può stare distante da essi, deve stare vicino a tutti noi. Per questo mi piace immaginare le mie opere, come se fossero oggetti quotidiani che in qualche modo ti sussurrano nelle orecchie storie, storie di relazione tra uomo e ambiente.
Il passato, la storia, non è mai qualcosa che si appoggia su di noi, nasce dalla relazione tra uomo e ambiente. Senza questo rapporto non ci possono essere determinati avvenimenti. Non credo mai che la storia possa essere un qualcosa di già scritto, ma è nella relazione tra esseri umani e ambiente che nasce e si sviluppa. Da un punto di vista metodologico il mio lavoro nasce dall’osservazione di archivi, su quello che c’è. Non mi piace pensare agli archivi come qualcosa di rigido, come qualcosa di antico, mi piace immaginarli come ‘specchi parlanti’ di una fonte moderna e circolare.
Nella maggior parte dei miei progetti c’è sempre un osservare dati e calchi. L’archivio è una modernità che si aggancia a una altra modernità, e in questo collegamento che gli archivi ci mostrano le attinenze che probabilmente condividiamo da tempo tra di noi esseri umani e specie.
Una delle attinenze che ogni essere umano condivide da sempre è il desiderio di trovare una propria posizione nel mondo.
Un luogo a cui appartenere, una posizione non solo geografica ma uno spazio che nasce e che ha significato in base a quello che creiamo e a quello che progettiamo. Gli archivi custodiscono questo, quello che creiamo e quello che progettiamo, gli archivi producono grazie a questi due valori bellezza, e lei ci mostra da dove nasciamo e dove possiamo arrivare.
In questi ultimi anni (2019- 2021) a Napoli ho studiato le incisioni borboniche.
Da questa ricerca nascono i due progetti: L’arte del danzare assieme e Gates.
Sono interessato alle incisioni del periodo borbonico e nello specifico alle antichità di Ercolano esposte perché queste esperienze testimoniano come tramite la cultura un territorio può parlare e confrontarsi con altri territori.
Nello specifico, il re Carlo di Borbone aveva un piano politico molto preciso, voleva capire come il suo regno potesse essere ‘ascoltato’ e ‘letto’ dalle corti europee, per questo decise di catalogare i siti artistici e di divulgarli attraverso forme d’arte facilmente riproducibili come quelle delle stampe.
Intuisce che attraverso gli strumenti della cultura ci può riuscire. Mentre sta costruendo una villa a Portici, ritrova alcune antichità. Comprende che sotto terra c’è un tesoro, comincia gli scavi a Ercolano e Pompei e per testimoniarne le scoperte, non essendo ancora state inventate le fotografie, istituisce un’accademia che attraverso incisioni e stampe raccontano i ritrovamenti. Queste stampe diventano delle vere e proprie ‘ambasciate’ che diffondono le bellezze del regno in tutta Europa.
Le incisioni e le stampe diventano gesto politico, diplomatico e di propaganda.
Dimostrano come gli oggetti possano conservare dentro di loro dei piani politici. Infatti, queste stampe vengono inviate in tutte le corti e alimentano il Grand Tour, i viaggi dei nobili e intellettuali di tutta Europa in Italia e Grecia per ammirare le bellezze del passato.
Il Regno delle due Sicilie diventa tappa fondamentale di questo peregrinare alla ricerca della storia e dell’arte.
Esperienze locali che diventano in qualche modo esperienze globali. È questo che mi interessa. Mentre ricercavo questa cultura borbonica, in me aumentava un senso di appartenenza, perché riconoscevo che la mia cultura è formata da un senso di contaminazione, non è formata da una sola strada egemone, ma ne vedo tante, ci sono molti percorsi possibili e paralleli, ogni uno di questi ha saputo stratificarsi nel nostro territorio, producendo esperienze, oggetti e identità complesse perché in grado di parlare lingue e culture diverse.
Questo mi ha ispirato e guidato nella progettazione delle due mostre.
I vasi, la carta da parati presenti nella mostra L’Arte del Danzare assieme o le 130 pietre del progetto Gates cercano di narrare queste storie molteplici e nell’allestimento tutti i singoli pezzi, anche se diversi nella loro identità singola, trovano una propria armonia nella loro dimensione multipla.
La carta da parati che espongo nella mostra (L’arte del danzare assieme) è un chiaro esempio, duemila stampe che tramite un disegno diventano una sorte di sciame, ogni singola identità danza armoniosamente con l’altra.
La carta parati è stata possibile produrla grazie all’incontro che ho avuto con le stampe presenti nella collezione di Carlo Firmian (conservate nel Gabinetto Disegni e Stampe del museo ), è stata una esperienza unica poterle osservare tutte.
Le prime emozioni che mi ha fatto scaturire questa ricerca erano le stesse di quando sfogliavo i libri a Port’Alba a Napoli, storica zona di librai, quando ero bambino. Mi immergevo completamente in quel flusso storico. Saltavo tra tantissime edizioni, da una, all’altra. Era come aprire delle porte ed entrare in mondi magici. Mi provocava una vera e propria scossa adrenalinica da cui ancora oggi faccio fatica a uscire.
Quando inizio una produzione, faccio molta fatica a distrarmi.
Osservare le incisioni presenti nella collezione Firmian è stato come salire su una bicicletta che non si ferma mai. Ho provato una voglia incredibile nel capire come le varie incisioni si susseguissero e come creare un collegamento tra esse e con le mie opere.
Quando lavoravo a questo progetto ho provato le stesse emozioni di quando ero bambino, ero rapito dalla stessa magia. Provavo la medesima curiosità, la stessa bellezza, potenza ed energia.
La mia ricerca sulla collezione Carlo Firmian non è scientifica, ma emozionale. È una conoscenza empatica, legata all’immagine, a quello che mi può sussurrare, a quello che posso mettere insieme e di conseguenza, su quello che può arrivare al pubblico.
Scopri la mostra nella pagina dedicata.