L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… la Madonna del Divino Amore di Raffaello
Il restauro della Madonna del Divino Amore di Raffaello nei laboratori di Capodimonte ha approfondito la conoscenza del procedimento esecutivo chiarendo la sostanziale autografia dell’opera che era precedentemente attribuita alla bottega dell’artista.
L’apparente immediatezza del dipinto cela un’elaborazione incredibilmente complessa alla ricerca di un equilibrio che rifletta l’armonia universale.
Per la rubrica “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta” Angela Cerasuolo del Dipartimento di Restauro del museo ci parla dell’opera, della storia conservativa e del restauro, e delle indagini diagnostiche.
Il dipinto noto con il nome di Madonna del Divino Amore era in passato considerato uno dei più preziosi della collezione Farnese.
Declassato alla fine dell’Ottocento ad opera di bottega, ha rivelato la sua sostanziale autografia nel 2012, quando è stato oggetto di indagini e nuovi studi in occasione del restauro.
Giorgio Vasari ricordava quest’opera nella Vita di Raffaello (1550) fra le più belle del periodo romano:
Lavorò un quadro al signor Leonello da Carpi signor di Meldola … miracolosissimo di colorito e di bellezza singulare … di forza e d’una vaghezza tanto leggiadra che io non penso che e’ si possa far meglio.
Acquistata dal cardinale Alessandro Farnese nel 1565, rimase per quasi un secolo a Roma a Palazzo Farnese, ammiratissima e continuamente copiata.
Fu poi trasferita a Parma a Palazzo del Giardino, per arrivare a Napoli con Carlo di Borbone, che dal 1734 vi trasferì la collezione ereditata dalla madre Elisabetta Farnese.
La descrizione del dipinto fatta da Vasari già metteva l’accento sul carattere devoto della scena e sul delicato scambio di affetti che la anima.
Forse per questo dai primi decenni dell’Ottocento il quadro è stato denominato Madonna del Divino Amore diventando una delle immagini più familiari e amate dell’iconografia devozionale.
Il dipinto fu considerato di Raffaello per tutto l’Ottocento, poi però la critica lo aveva attribuito alla bottega.
Molto aveva influito la convinzione che un grande disegno dello stesso soggetto conservato a Capodimonte, attribuito all’allievo Giovan Francesco Penni, fosse un cartone preparatorio, cioè fosse stato utilizzato per trasferire i contorni del disegno sulla tavola.
Ma la riflettografia infrarossa realizzata in preparazione del restauro – un’indagine che consente di vedere al di sotto degli strati pittorici superficiali – ha chiarito senza più dubbi che si tratta viceversa di una copia su carta tratta dal dipinto, non di un cartone preparatorio per la sua esecuzione.
Il disegno infatti riproduce esattamente ogni dettaglio del dipinto finito, mentre l’indagine riflettografica ha rivelato sulla tavola, al di sotto della pellicola pittorica, un disegno preparatorio molto diverso.
Raffaello infatti ha apportato importanti modifiche alla composizione nel corso dell’esecuzione pittorica, con un tratto libero e creativo.
Tutto ciò conferma la sostanziale autografia del dipinto.
La storia conservativa e il restauro
Nel 1783 la «Sacra Famiglia di Raffaello» veniva descritta da Tommaso Puccini – erudito e conoscitore toscano, futuro direttore degli Uffizi – negli appunti di viaggio sulla visita al palazzo di Capodimonte:
Non serve discorrere della medesima, solo dirò che ha una leggerezza, la quale non ha reso mai alcuno in tutte le copie che ho veduto, le quali sono assai meschine per farle grandiose, come grandioso, e leggero è l’originale.
Dopo il recente restauro questa «leggerezza» è la qualità che più colpisce, di nuovo apprezzabile nelle stesure pittoriche lievi e sapienti, nella purezza e nell’equilibrata disposizione dei colori e dei lumi, con il fondo architettonico scuro e le rovine che si stagliano sul cielo terso dove in controluce passa la figura di Giuseppe.
Un equilibrio prezioso quanto delicato, che presto sarebbe stato compromesso da ridipinture e vernici oscurate.
Le carte d’archivio del Real Museo Borbonico riportano dettagliatamente le circostanze di un intervento di disinfestazione praticato nel 1841 dal professore Oronzio Costa – noto scienziato, in quegli anni docente di Zoologia presso l’Università di Napoli – in seguito ad un lungo dibattito da parte di una commissione riunita per stabilire il trattamento da adottare contro un preoccupante attacco di insetti xilofagi.
Alla fine la tavola viene trattata con arseniato di potassio fatto penetrare nel legno attraverso i fori prodotti dai tarli e quindi foderata con carta.
Viene poi dato l’incarico al restauratore Nicola La Volpe di occuparsi della parte dipinta: vengono chiusi i fori lasciati dai tarli con «stucco a colore», uno stucco a base di olio e pigmenti, che tuttora si è potuto riscontrare nelle parti interessate dai fori, descritte in dettaglio nel resoconto.
Infine si procedette alla verniciatura «per togliere quell’appannato che avrebbero mostrato i piccoli ritocchi eseguiti».
All’epoca si usava ripetere con frequenza le applicazioni di vernice, il dipinto sul momento si ravvivava, ma questa pratica avrebbe poi finito per appesantire sempre più i colori, confondendo i contorni e oscurandone i toni.
Prima dell’intervento realizzato nei laboratori di Capodimonte nel 2012 il dipinto era stato restaurato nel 1957 da Italo Dal Mas, e dalle foto realizzate durante la pulitura si desume che a quell’epoca era pesantemente oscurato da vernici antiche.
In quella occasione sulla superficie del dipinto erano stati lasciati tre piccoli tasselli rettangolari non puliti, come testimonianza dello stato precedente.
Due di questi, sullo scollo della veste della Vergine e sulla spalla del Bambino, in un momento successivo erano stati coperti di colore chiaro per renderli meno evidenti.
Rimaneva vistosamente presente quello lasciato al centro dello squarcio di cielo.
L’immagine del dipinto in fluorescenza ultravioletta realizzata nel 2012 prima del restauro mostra chiaramente la presenza disomogenea di vernice su tutta la superficie, in particolare nell’area del manto azzurro della Vergine, rimasta coperta da patine e ridipinture anche dopo la pulitura del 1957; si osservano inoltre integrazioni localizzate sulle poche lacune di profondità, ma è anche evidente una stesura applicata sopra il ginocchio della santa, un tono bruno che l’aveva portato a confondersi col colore ocra del manto.
La pulitura realizzata nel 2012 ha recuperato per quanto possibile l’equilibrio della superficie pittorica, disturbato da tutte queste interferenze.
È emerso il contrappunto dei colori studiatamente disposti: arancio, ocra, lacca, l’intenso azzurro del manto che esalta l’incarnato roseo del Bambino, il verde tenero e caldo della vegetazione in primo piano a cui fa riscontro la nota acuta del verde chiaro del ginocchio di Sant’Anna, liberato dalla ridipintura che ne aveva spento l’intensità.
Le indagini
La riflettografia infrarossa ha rivelato sotto gli strati pittorici un disegno preparatorio che ha trasformato radicalmente la composizione iniziale.
In una prima idea del dipinto la scena si apriva su un paesaggio luminoso attraversato da un corso d’acqua.
Il paesaggio non era solo disegnato ma in parte anche dipinto, e se ne scorgono i dettagli: imbarcazioni, uno steccato, animali, un contadino con un asino su un ponte.
Davanti al paesaggio vediamo una balaustra retta da colonnine tornite e un putto-telamone con una sfinge alla base.
Ma, in un momento ormai avanzato della realizzazione del dipinto, Raffaello cambiò idea.
Decise di coprire gran parte del paesaggio e di inserire sullo sfondo la figurina del San Giuseppe sotto un arco in rovina.
Furono eliminati elementi narrativi e al tempo stesso la luce risultò modificata: coprendo il paesaggio col costone roccioso scuro, l’attenzione si concentra sul gruppo centrale illuminato e si crea un chiaroscuro più accentuato.
A tutta la scena è stato impresso un movimento lievemente rotatorio che anima tutto il gruppo, mentre l’architettura ha acquisito un’angolazione opposta, obliqua rispetto alla frontalità iniziale.
In questa fase si rese necessario il disegno oggi conservato all’Albertina.
Il foglio è servito a studiare la posa solenne della figura di San Giuseppe prima di inserirla nel dipinto, per realizzarla poi sulla tavola direttamente col colore con poche pennellate compendiarie.
Ma le modifiche più impressionanti riguardano la composizione del gruppo di figure centrali, sviluppata alla fine direttamente sulla superficie della tavola con un disegno estremamente libero e fluido, che non può che spettare al maestro.
Ritroviamo gli stessi tratti che si intrecciano e si confondono vorticosamente degli schizzi su carta di Raffaello, come per esempio il disegno per la Madonna del Duca d’Alba (Lille), il foglio a penna del British Museum di Madonna col Bambino o il piccolo cartone per la Madonna Machintosh (British Museum).
Dopo aver riportato sulla tavola un disegno studiato preliminarmente, Raffaello ha iniziato a modificare i contorni delle figure e la loro posizione reciproca.
Una stampa di Marcantonio Raimondi, nota come Madonna della palma, corrisponde precisamente al disegno rivelato dalla riflettografia.
Doveva quindi esistere un disegno preparatorio su carta oggi perduto, un piccolo modello della composizione, copiata da Raimondi nell’incisione.
Il San Giovannino era situato più in basso, il volto di tre quarti, la gamba sinistra inclinata, come nella stampa.
Il disegno era realizzato dettagliatamente, con particolari che si ritrovano nell’incisione, come la pelliccia che copriva il torace e la ciotola sul fianco.
Anche la mano destra di Sant’Anna inizialmente era simile all’incisione, e doveva afferrare l’avambraccio del Bambino con una presa salda e irruenta.
Qui i tratti del disegno si infittiscono nella ricerca tormentata del gesto, che diventerà lievissimo, risolto alla fine direttamente col colore, realizzando una delle parti più belle del dipinto.
Anche la testa di Sant’Anna, prima di profilo, è stata ruotata in posizione frontale, mentre il suo sguardo, prima orientato verso San Giovannino, si dirige assieme a quello della Vergine verso il Bambino.
Nonostante la complessa elaborazione il volto della Sant’Anna è infine realizzato con magistrale lievità di tocco ed esiti di luminosa trasparenza.
Un altro elemento imprevisto emerso nell’infrarosso è un tracciato grafico costituito da linee – una sorta di ‘piramide prospettica’ – da mettere in rapporto con la costruzione spaziale del gruppo di figure, studiata per equilibrarne la scansione tridimensionale.
L’apparente immediatezza della Madonna del Divino Amore cela dunque un’elaborazione incredibilmente complessa: la ricerca di un equilibrio che rifletta l’armonia universale.
Elaborazione del tutto dissimulata nell’immagine finale, secondo la poetica della «sprezzatura» affermata da Baldassarre Castiglione, che suggeriva di
usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi.
Raffaello Sanzio (Urbino, 1483, Roma 1520) e aiuti
Madonna del Divino Amore
olio su tavola cm 140×109
Inv. Q (1930) 146
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
Il testo di Angela Cerasuolo è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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