L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… l’archibugio per Ranuccio I Farnese
Il racconto della collezioni di Capodimonte oggi tocca l’Armeria che si compone di un nucleo originario più antico appartenuto alla famiglia Farnese e alle sue guarnigioni (XV e XVII secolo) e di un nucleo borbonico (XVIII e XIX secolo).
Per “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta…” il restauratore Antonio Tosini ci fa conoscere un vero pezzo da novanta: l’Archibugio a ruota per Ranuccio I Farnese, datato 1596, di Giovan Battista Visconti.
L’Archibugio a ruota per Ranuccio I Farnese, datato 1596, è tra le armi da fuoco più significative della produzione italiana della fine del XVI secolo, capolavoro di intaglio e traforo in acciaio, risente in maniera netta dell’influenza bresciana nella maniera di lavorare il ferro.
L’alta qualità, la maestria dell’autore e l’appartenenza ad un ben noto principe dell’epoca lo rendono quasi un “unicum” nel panorama europeo delle armi da fuoco.
La grande ruota “alla fiamminga” ha la cartella completamente incisa e cesellata a racemi con figure antropomorfe, grifi, unicorni e draghi fantastici.
Il cane è scolpito a forma di drago con le ganasce a formare le fauci ed alla gobba del copriscodellino compare la scritta GIO. BAT. VISC. Lungo il margine inferiore dell’interno della cartella si legge, invece, IOVANES BAPTI VICECOM. F. A. PAR.
La cassa è intera, di noce, riccamente decorata con lamine d’acciai o incise e messe a giorno a formare racemi, draghi, putti e piccoli unicorni, due trofei d’armi con le chiavi di San Pietro e il gonfalone pontificio, arpie, l’aquila di Giove con le saette e Pomona con la scritta FLORET, tutti riferimenti iconografici relativi alla famiglia Farnese.
Al lato sinistro, in corrispondenza della nocca due angeli reggono una corona circolare con inscritto il motto SPLENDOREM POSCIT AB VSV 1596, al centro l’arme Farnese ed in alto un putto che regge un cartiglio con la scritta RAN. FAR. DVX IIII.
Oggi risulta mancante del calciolo metallico, del ponticello e del grilletto.
L’archibugio ha avuto vicende rocambolesche quasi da “spy story”.
Giunto a Napoli con l’eredità Farnese, fu trasferito a Parigi da emissari napoleonici che avevano ricevuto l’incarico di rastrellare in tutta Europa capolavori d’arte, da destinare al costituendo museo parigino, ed in quella città si trovava al momento dell’occupazione degli alleati dopo la vittoria di Waterloo.
L’arma non rientrò in Italia come altre opere, recuperate grazie all’interessamento del Canova, ma fu regalata da sir George Wood, comandante inglese nella Parigi della Restaurazione, al principe reggente, futuro Giorgio IV, che la acquisì nelle collezioni reali di Windsor.
Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, quando lo Stato Italiano aveva ormai formalizzato l’acquisto dell’Armeria Odescalchi, oggi esposta a Palazzo Venezia a Roma, dalle armi acquisite era stata abilmente sottratta, dal Master of the Armouries della Regina d’Inghilterra, un arma storicamente ed artisticamente molto importante, la storta di Enrico VIII in oro e acciaio.
Giunta a Londra attraverso i canali diplomatici, eludendo le leggi italiane sulla tutela del nostro patrimonio artistico, era stata collocata nello stesso castello di Windsor.
Grazie all’interessamento dell’allora direttore della Galleria Nazionale di Roma Nolfo di Carpegna, nel 1963 si propose uno “scambio di depositi”, idea approvata entusiasticamente dall’allora Direttore Generale delle Belle Arti Bruno Molajoli che da poco aveva lasciato la direzione di Capodimonte.
La daga di Enrico VIII sarebbe rimasta a Windsor e l’archibugio di Ranuccio Farnese trasferito nella sua sede originaria, dove possiamo ammirarlo oggi, il Museo di Capodimonte.
Il testo di Antonio Tosini è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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