L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… l’Estasi di Santa Cecilia di Bernardo Cavallino
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… vi proponiamo il testo di Riccardo Lattuada, docente di Storia dell’Arte dell’età moderna all’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e membro del Comitato scientifico del Museo e Real Bosco di Capodimonte, sul dipinto di Bernardo Cavallino l’Estasi di Santa Cecilia.
Un’opera raffinata, una scena di gioiosa serenità dalla tavolozza brillante e materica, una delle prove più alte della sensibilità dell’inimitabile maestro napoletano.
È una giovane donna splendida, di una bellezza modernissima: mani affusolate, curate, che non hanno conosciuto il lavoro dei campi – è una aristocratica romana – il volto di una ragazza appena uscita dall’adolescenza; piedi sottili che calzano leggeri sandali all’antica.
Veste un abito di seta color giallo oro con controtagli alle maniche e sbuffi di una camicia bianca all’attacco della spalla; sull’abito è un mantello di seta blu oltremare, bordato di perle.
Nel bozzetto è inginocchiata su un cuscino di raso verde orlato di fili d’oro; nella stesura finale il cuscino è più scuro ma ancora visibile.
I due angeli – l’uno, in piedi dietro di lei, che la incorona con un serto di fiori intrecciati; l’altro, più sullo sfondo, che suona un liuto – condividono un sorriso tanto ineffabile quanto pieno di gioiosa serenità.
In controluce, a sinistra di chi guarda, quello che forse è un leggìo è rivestito da un panno di velluto scuro.
Sullo sfondo è un tendaggio di broccato scuro, che crea intorno alle tre figure un alveo di luce capace di scolpire uno strepitoso caleidoscopio di chiaroscuri.
Viene in tal modo esaltata la tavolozza brillante e materica dell’inimitabile maestro napoletano.
La ragazza, il cui volto è leggermente imperlato da tenui riflessi di biacca sulle labbra e sul mento, ha la bocca lievemente dischiusa e gli occhi rivolti al cielo, ma non esattamente verso il serto di fiori, perché è da una dimensione extrasensoriale che le sta giungendo la musica accompagnata dal giovane liutista alato.
Cecilia, nata nel II secolo a Roma da una famiglia aristocratica, ha in quella stessa mattina sposato il nobile Valeriano.
Durante la funzione la ragazza, mentre risuonano gli strumenti musicali e i cori, canta fra sé: conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa.
Dopo aver confidato il suo proposito al marito quest’ultimo si converte al Cristianesimo, venendo battezzato nella prima notte di nozze dal Pontefice Urbano I. Ma tornato a casa Valeriano vede Cecilia in preghiera con un giovane: è l’angelo custode della ragazza.
Insospettito, forse irritato, chiede una prova dell’effettiva natura angelica del giovane: questi, allora, fa apparire due corone di fiori e le pone sul capo dei due sposi.
Nel dipinto di Bernardo Cavallino a Capodimonte e nel suo bozzetto Valeriano non c’è, e tutta l’attenzione del pittore è concentrata su Cecilia.
La sua perfezione, la sua moderna bellezza, la carica (certo) anche erotica della santa e degli stessi angeli biondi, dalle membra affusolate e colte in pose elegantissime, farebbero pensare – come si è spesso sostenuto – alla torsione di un tema legato alla santità, che sarebbe stato trasformato in una performance di seduzione non solo sessuale, ma anche edonistica (le stoffe preziose, gli strumenti musicali).
Ma non è così: l’angelo che incorona Cecilia regge delicatamente nella mano sinistra la frasca di palma che indica l’annuncio del martirio; il violino giace inutilizzato a terra accanto a uno spartito, perché la musica divina non è eseguita da strumenti e non è fisicamente udibile, e dunque anche il liuto tra le mani dell’angelo a sinistra è immateriale al pari della presenza che lo suona.
Il piacere che prova Cecilia è della stessa natura di quello che pochi anni più tardi Bernini imprimerà alla postura e all’espressione della Santa Teresa in estasi a Santa Maria della Vittoria (Roma, 1647-1652).
È un piacere che sembra appartenere alla sfera dei sensi, ma che attraverso essi rende possibile accedere alla dimensione della santità e al suo premio: la comunione con il Divino.
Davanti a Bernini il piccolo Presidente Charles de Brosses ha colto solo la superficie del messaggio: “Si c’est ici l’amour divin, je le connais; on en voit ici-bas maintes copies d’après nature”; e così è stato anche per il gelido ma pur geniale razionalismo del Marchese de Sade (“On a du mal à croire qu’il s’agisse d’une sainte”).
Lo stesso Georges Bataille, infinitamente più sofisticato, di fronte all’opera di Bernini tocca un limite interpretativo quando parla di una
“sensibilità religiosa che unisce strettamente desiderio e paura, piacere intenso e angoscia”.
Tutte queste letture, e tante altre accumulatesi nei secoli, non tengono conto delle intenzioni di Bernardo Cavallino e dello stesso Bernini: rappresentare un momento di per sé irrappresentabile, in cui l’esperienza di esseri umani vivi si sposta dalla fisicità a quel che le sta oltre (di qualunque cosa si tratti); qualcosa di trascendente che risiede oltre la sofferenza, oltre lo stesso piacere.
Anche al tempo di Bernardo Cavallino qualsiasi artista era posto costantemente di fronte a un bivio: reiterare modelli plurisecolari di rappresentazione di una santa o di una storia sacra o giocarsi la carta più rischiosa, quella di porre la propria sensibilità al servizio di una esperienza irrappresentabile.
Cavallino ha speso tutta la sua breve vita di artista – quarant’anni esatti – al servizio di questa sensibilità: pochi decenni di lavoro e non un’opera banale, sprecata, convenzionale.
La Santa Cecilia di Capodimonte – di cui possiamo osservare anche l’ideazione attraverso la rara circostanza di disporre del bozzetto, e di poterlo confrontare con la stesura definitiva – è una delle prove più alte ed elette della sensibilità di Bernardo Cavallino.
È anche uno dei suoi rarissimi dipinti di vasto formato: è una pala d’altare in origine nella Chiesa napoletana di Sant’Antoniello delle Monache, che quando è stata esposta ha mostrato ad un pubblico più vasto della sola clientela privata quanto sapesse essere grande questo virtuoso ma poco fortunato maestro.
Sul taglio concavo di un volume rivestito di pergamena il pittore ha scritto la sua firma B[ernardo] C[avalli]no. P[inxit] A[nno] 1645, le iniziali intrecciate in un elaborato monogramma.
Circostanza rarissima nel percorso di Bernardo Cavallino.
Quasi una dichiarazione programmatica, come a dire: qui avevo l’occasione per dimostrare chi sono; questo sono io; questa è la sostanza della mia arte.
Il testo di Riccardo Lattuada è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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