L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Umberto Manzo
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Umberto Manzo, uno dei grandi maestri dell’arte contemporanea.
L’autore del polittico Senza titolo percorre le tappe più interessanti della sua formazione artistica, svelando il processo creativo che lo ha condotto alla realizzazione di questa opera ossimorica, a cavallo tra fragilità e immortalità, deperibilità e finitezza.
Il testo e l’intervista ad Umberto Manzo sono di Luciana Berti, Storica dell’arte, Segreteria di direzione.
Nel marzo del 2018 una nuova opera è entrata a far parte della collezione di arte contemporanea del Museo di Capodimonte.
Il polittico Senza titolo di Umberto Manzo si è aggiunto alle opere dei grandi maestri contemporanei i cui lavori sono esposti al terzo piano della Reggia.
Seguendo una tradizione recente, benché consolidata dalle donazioni degli artisti Alberto Burri, Jannis Kounellis, Louise Bourgeois, Mimmo Jodice e Mimmo Paladino, questa acquisizione rivela il legame profondo di Umberto Manzo con Napoli, sua città di nascita e dove ha deciso di condurre la propria ricerca artistica.
L’opera, che fa parte degli archivi della memoria, pur essendo composta da numerosi elementi, propone nella sua interezza un ritmo armonico, una felice sintesi di colori e materiali.
Racchiusa nelle cornici metalliche del polittico, la silhouette della testa di Afrodite emerge dal fondo e si struttura attraverso la sovrapposizione di carte di diversa grammatura e colore, tra i materiali irrinunciabili della produzione di Manzo degli ultimi decenni.
Da un lato, la statuaria classica indica la strada per valicare la fragilità della materia e la tensione all’immortalità, dall’altro l’archivio, con la sua deperibilità e finitezza, allude al corso degli eventi e al vissuto individuale.
In Senza titolo, Manzo risignifica il concetto di archivio, non più contenitore nel quale sono sistematicamente conservate e classificate le informazioni ma bacino cui attingere per alimentare concetti quali la memoria e l’identità.
All’accumulo di informazioni, l’artista sostituisce la stratificazione non lineare del ricordo, un atto di resistenza contro il decadimento della materia, che coinvolge gli esseri e gli oggetti.
Un atteggiamento analogo è stato alla base della costruzione del museo, inteso come raccolta di testimonianze materiali e immateriali, una sfida lanciata dall’uomo alla finitezza del suo mondo, contro l’oblio della memoria.
Nel museo, infatti, si incrociano l’estro creativo e il documento storico, il dato evenemenziale e la necessità della rappresentazione, esigenze espositive e visioni ideologiche; estetica e politica si fondono alle vicende dei committenti, dei soggetti dei ritratti, dei collezionisti.
Molte altre sono le trame invisibili che legano personaggi, manufatti, sculture, oggetti, monete e gioielli, reminiscenze latenti custodite al loro interno e alle quali Manzo attinge per alimentare i suoi archivi della memoria.
Fragilità ed eternità convivono nel polittico del 2016, così come a Napoli coesistono antichi reperti archeologici e le espressioni di una metropoli contemporanea.
Attraverso la stratificazione di livelli e fogli, l’artista reinterpreta l’identità della città partenopea, in cui le fondamenta greche convivono con i pilastri degli edifici in cemento, dove a un bugnato del Cinquecento fanno da contraltare le opere di street art.
La porosità della città con il suo intreccio di epoche ed episodi, caotico e sublime, si insinua negli strati sottili dei fogli di Senza titolo trattenuti, a stento, dalla sagoma composta della testa di Afrodite.
Il richiamo alla classicità e l’utilizzo della figuratività accompagnano la ricerca di Manzo fin dalle origini del suo excursus creativo, collocabile alla fine degli anni Ottanta.
Dal 1987 ha avuto inizio una duratura e fortunata collaborazione con lo Studio Trisorio, galleria che lo ha introdotto nel circuito artistico internazionale e che ha dedicato all’artista numerose mostre personali, tra le quali l’antologica a Castel dell’Ovo nel 2003.
Le sue opere sono esposte in importanti musei italiani oltre che in Portogallo, Spagna, Svizzera e negli Stati Uniti.
Per approfondire alcuni aspetti del suo lavoro, abbiamo rivolto alcune domande ad Umberto Manzo
Si è formato all’Accademia di Belle Arti di Napoli come scenografo. Ha poi sperimentato un linguaggio informale e condotto ricerche sulla fotografia.
Come è approdato ai temi dell’archivio e della stratificazione?
Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80, parallelamente alla ricerca fotografica, ho avviato le prime esperienze pittoriche.
Anche se in quegli anni predominava una pittura cosiddetta “selvaggia” di tipo espressionista, la mia ricerca era orientata alla classicità, all’ordine, alla bellezza, all’equilibrio e al silenzio.
Con il lavoro presentato nel 1988, al Centro Prossemico di Cultura di Napoli, prese avvio una sperimentazione con caratteristiche formali e concettuali differenti.
Le sette opere, tutte di uguale formato, rappresentavano altrettante sagome di statue classiche, dipinte su una superficie che ricordava la pittura parietale antica.
I dipinti erano imprigionati in fredde cornici metalliche, dello spessore di 10 cm.
Da quel momento il quadro iniziò ad interessarmi come oggetto e come contenitore di memoria.
Nel caso di queste sette opere, l’immagine delle figure divenne il ricordo della pittura, custodito all’interno delle spesse cornici.
L’anno successivo iniziai a lavorare con la carta trattata con l’emulsione fotografica, le foto erano frammenti del mio corpo poggiate in teche metalliche protette da vetro.
Queste carte, alternate a disegni, erano sovrapposte e cominciavano ad acquistare concretezza, la carta stessa diventava il corpo dell’opera.
Nel 1992 ho realizzato la prima opera fatta di carte tagliate a strisce, stratificate e chiuse in una teca di ferro e vetro.
Non mi interessava più l’immagine rappresentata, desideravo creare lavori che contenessero un’infinità di cose, la stratificazione era la forma estetica dell’opera, che si presentava e non rappresentava.
Fragilità ed eternità sono sempre presenti nella sua produzione, in particolare negli “archivi della memoria”.
Può raccontarci il procedimento di realizzazione?
I materiali che utilizzo per la creazione dei miei archivi sono disegni che realizzo su rotoli di carta da scenografia, chiamata anche carta da spolvero.
Intervengo su questa carta in maniera molto libera, senza alcuna preoccupazione formale e senza dover rinunciare a niente, possono essere interventi di tipo informale o figurativo, utilizzando colori, pastelli, matite ecc.
Successivamente taglio a strisce questi disegni e li monto su tavola, dove alla fine tutto trova un equilibrio.
La cosa interessante è che dietro il risultato finale, che è quello di un’opera di rigore formale, si cela un momento di grande libertà.
All’interno di una immagine classica e silenziosa, che trova equilibrio nella sua interezza, sono contenute un’infinità di energie espressive.
Nell’opera della collezione del Museo di Capodimonte, l’elemento centrale è la testa di Afrodite.
Da dove deriva questa figura e quali sono i suoi riferimenti?
I nove elementi del polittico del 2016 compongono la testa di una Afrodite, ottenuta praticando uno scavo nella superficie della tela, come un grande contenitore di memoria, al cui interno sono custodite, per stratificazioni, storie millenarie.
Potremmo dire che la grande testa diventa metafora del museo stesso, entrambi custodiscono qualcosa di prezioso ed entrambi sono pronti ad arricchirsi di nuove possibilità.
Come afferma il nostro direttore: un museo che si arricchisce di opere nuove è un museo vivo.
Anche le mie opere, con le loro infinite stratificazioni non sono mai concluse ma sempre vive e pronte ad accogliere nuove emozioni.
Inoltre, in quest’opera c’è un chiaro riferimento a Napoli, città stratificata per eccellenza.
I suoi lavori sono esposti nelle maggiori collezioni pubbliche napoletane, dal Museo di Capodimonte al Museo MADRE, fino alla Metropolitana di Napoli.
Quanto è determinante nella sua produzione il rapporto con i fruitori?
Le mie opere nascono da un’esigenza di qualcosa che non esiste e di cui sento la mancanza, quindi dal desiderio di creare opere che mi diano godimento.
Possiamo dire che il primo fruitore sono io, anche se il termine fruitore non mi è mai piaciuto.
Ho sempre pensato alle opere come delle presenze capaci di dialogare con chi le guarda e non come oggetti passivi sottoposti allo sguardo dello spettatore.
Dagli anni Ottanta ad oggi, insieme allo Studio Trisorio ha condotto numerosi progetti.
Quanto è importante per un artista poter contare su una galleria che sostiene il suo lavoro?
Per il mio carattere tantissimo.
Ho avuto fin da giovanissimo una visione molto romantica dell’artista, l’ho sempre visto come chi se ne sta nel suo studio a lavorare in grande libertà, senza preoccuparsi di tutti gli altri aspetti che sono dietro al mestiere di artista, primo fra tutti quello commerciale.
Per me è stato un trauma quando ho scoperto che per vivere di questo bisogna vendere le opere, per vendere le opere bisogna promuoverle, per promuoverle bisogna curare pubbliche relazioni ed essere un bravo comunicatore: tutte cose che non ero capace di fare, o meglio ancora non mi piacevano.
La mia grande fortuna è stata quella di lavorare fin dalla metà degli anni ’80 con lo Studio Trisorio, che ha presentato il mio lavoro in numerose fiere internazionali e mi ha dedicato diverse mostre.
Ad ogni modo, lavorare con una galleria è questione di credibilità, se un artista lavora da più di 30 anni con una galleria un motivo ci sarà.
Anche se oggi per un giovane artista far conoscere il proprio lavoro è molto più semplice di un tempo, con i nuovi mezzi di comunicazione ed i social.
Può raccontarci il suo primo ricordo legato al Museo di Capodimonte?
Era il 1978 quando, ancora studente, cominciavo a visitare gallerie e mostre, non mi perdevo quasi niente di tutto ciò che la città offriva, c’era in me una gran voglia di capire e scoprire il mondo dell’arte, anche se in quegli anni le proposte più interessanti arrivavano dalle gallerie private.
In quel periodo, avevo saputo della grande opera che Alberto Burri aveva donato al Museo di Capodimonte e andai immediatamente a vederla.
Fu un momento molto importante, capii tante cose, vedevo nel Grande cretto nero la stessa drammaticità delle opere di Caravaggio, la luce dell’ambiente che si rifletteva in diversi punti della grande superficie lucida e nera dell’opera era la stessa luce che vedevo nelle opere di Caravaggio.
Capii che passare da un’opera del Seicento ad una contemporanea non è poi così traumatico.
Il testo di Luciana Berti è inserita nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”
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