L’italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… il Trittico con Storie della Passione
Per la rubrica “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta…”, Paola Giusti, storico dell’arte del Museo e Real Bosco di Capodimonte e curatrice delle arti applicate, in occasione del Sabato Santo, ci racconta il Trittico con Storie della Passione: sette rilievi in alabastro che raffigurano i principali episodi della Passione di Cristo.
Il polittico con Storie della Passione realizzato in Inghilterra, probabilmente a Nottingham, nella seconda metà del Quattrocento è una grande macchina lignea che racchiude e sostiene entro una incorniciatura in stile gotico fiammeggiante sette rilievi in alabastro che raffigurano i principali episodi della Passione di Cristo.
A sinistra la Cattura nell’orto del Getsemani, Cristo davanti a Pilato, l’Andata al Calvario, al centro la Crocifissione – che domina con le sue maggiori dimensioni l’intera sequenza – a destra la Deposizione dalla croce, il Seppellimento di Cristo, la Resurrezione.
Affiancano il riquadro centrale le figure dei quattro Evangelisti, ciascuno con il proprio simbolo e un cartiglio con l’incipit – o un versetto iniziale – del proprio Vangelo.
Estese didascalie tracciate in nero su fondo bianco – in modo da essere ben visibili anche nella semioscurità della chiesa di appartenenza –chiariscono e commentano i soggetti reiterando più volte, drammaticamente, il nome di Cristo.
“Captus est Jhesus, Gesù è catturato; Ductus est Jhesus ad Pilatum, Gesù è condotto da Pilato; Jhesus portat crucem super humerum, Gesù porta la croce sulle spalle; Crucifixus est Jhesus, Gesù viene crocifisso; Depositus est ex cruce, Gesù viene deposto dalla croce; Sepultus est Jhesus, Gesù viene sepolto; Resurrecco (sic!) Domini nostri, Resurrezione di Nostro Signore”.
Svolazzanti cartigli – quasi gli antenati dei moderni fumetti – rafforzano la valenza narrativa delle storie, dando voce ad alcuni personaggi, come il centurione che nella Crocifissione dichiara:
“Veri [filius] dei erat iste, Davvero costui era il figlio di Dio”.
Proveniente dalla chiesa napoletana di San Giovanni a Carbonara, “pantheon” della dinastia angioina degli Angiò Durazzo, e ricordato come opera appartenuta al re Ladislao di Angiò Durazzo, il grande retablo della Passione oggi a Capodimonte è un importante tassello che testimonia la circolazione degli alabastri inglesi nel Medio Evo.
Questo straordinario fenomeno di commercio artistico che coinvolse l’intera Europa è documentato dalla fine del Trecento per giungere al suo culmine nel Quattro e Cinquecento con una ampiezza che incluse non solo Francia e Spagna, legate all’Inghilterra da antichi e ben consolidati percorsi commerciali e marittimi, ma anche, lungo la via dei traffici della Lega Anseatica (una alleanza di compagnie marittime, dette Hanse, sorte nelle città mercantili affacciate sul Baltico e sul Mare del Nord) i Paesi Bassi, la Danimarca, tutta la penisola scandinava e persino la lontana Islanda.
Anche in Italia la presenza ab antiquo di polittici in alabastro è documentata a Venezia, Ferrara, Genova, Pisa, Venafro, e – nel Meridione – a Napoli, in San Giovanni a Carbonara, e a Maiori, sulla costiera amalfitana, ad attestare come anche proprio l’Italia, prima culla in Europa del Rinascimento e della riscoperta del gusto per l’Antichità classica, fosse una vivace e ricettiva piazza per la diffusione degli alabastri inglesi, di cultura invece tipicamente tardo-gotica.
Grazie all’abbondanza di cave di alabastro in tutto il Derbyshire, la lavorazione di questa pietra – tenera, traslucida e facilmente lavorabile – documentata in Inghilterra sin dalla metà del XIV secolo e utilizzata per tombe, sculture e monumenti, si volse, nel Quattrocento, alla produzione prima di singoli rilievi scolpiti, poi di grandi polittici.
Si hanno notizie di scultori in alabastro attivi a York, Lincoln, Burton, Trent, forse a Bristol e Norwich, e soprattutto a Notthingham.
Gli Alabastermen inglesi (o alabastrymen, come venivano chiamati nei documenti del tempo non solo gli scultori, pittori e carpentieri che realizzavano le opere, ma anche quelli che le commercializzavano) furono cioè capaci di imporre e diffondere su tutto il mercato europeo questi straordinari prodotti.
La natura stessa degli altari in alabastro, provvisti di ante richiudibili in robusto legno di quercia, se da un lato, in considerazione del peso delle ante stesse, non poteva prevederne un reale cambio di posizione (come avveniva invece nei polittici dipinti) d’altro canto agevolava i lunghi e complessi trasporti, offrendo dei prodotti artistici in pratica già provvisti di un proprio imballaggio.
Trasportati per via di acqua o per via di terra lungo le rotte commerciali del tardo Medio Evo, i polittici, destinati prevalentemente a chiese e monasteri, erano dedicati generalmente al ciclo mariano o a quello della Passione, ma anche – più raramente – a storie di santi.
Oltre settanta retabli e polittici più o meno completi ancora esistenti – fra i quali di centrale importanza quelli noti ab antiquo sul territorio, come quello della Cattedrale di Santiago di Compostela, con storie del santo protettore Giacomo apostolo, donato dal canonico John Goodyear nel 1456, o come quelli islandesi con storie mariane, il primo a Hitardur (ed oggi al Museo Nazionale di Islanda) documentato dal 1463, il secondo a Möðruvelir (oggi ad Akureri, Museo del Folklore) attestano l’incontestato successo di queste opere.
La tipologia messa a punto, specie nella seconda metà del Quattrocento, comportava la presenza di coronamenti architettonici a guglie e pinnacoli traforati, lavorati su pezzi staccati che creavano l’effetto di una trina, dall’inserzione sempre più frequente di figure di piccole dimensioni fra i rilievi o sugli estremi delle pale, dal progressivo ampliamento di dimensioni di queste opere che – da trittici – si evolvono in grandi dossali d’altare con i rilievi posti su due file, come è negli esemplari del Museo Vivenel di Compiègne, o quelli delle chiese parrocchiali di Génissac e di La Celle.
Rispetto a queste grandi opere a più ordini, nelle quali la lavorazione scade sovente nella serialità, alcuni trittici realizzati ad immediato ridosso della metà del secolo, come il piccolo trittico oggi al Victoria and Albert Museum (già collezione Swansea) o come quello di Capodimonte, ad esso molto simile ma se possibile ancora più bello, per la raffinatezza dell’intaglio e per la accuratezza della policromia mostrano una qualità esecutiva ed una accuratezza dell’intaglio degne della migliore scultura inglese coeva.
Le fonti di ispirazione furono prevalentemente la Legenda Aurea di Jacopo de Voragine (il testo agiografico forse più diffuso nel Medio Evo, che narra la vita e i miracoli di numerosi santi) e – per la Passione di Cristo – i Vangeli canonici e apocrifi.
Le storie prescelte, “drammatizzate“ come in una Sacra Rappresentazione attraverso una forte ricerca espressiva e patetica, spiegate dalle didascalie poste sulle predelle, “recitate” dai cartigli che davano voce ai personaggi, assumevano un forte impatto narrativo e suggestivo.
A ciò si aggiungevano la vivace policromia dei rilievi, la brillantezza e la preziosità dell’alabastro lasciato a vista in ampie superfici, l’opulenza delle macchine lignee anch’esse policrome ed ornate da intagli in legno dorato e da pastiglie anch’esse dorate, talvolta anche da luccicanti vetri églomisés, cioè dorati e dipinti sul retro (come è nel caso del trittico di Capodimonte, uno dei più completi giunti sino a noi), elementi questi che completavano il successo e il gradimento di queste opere.
Il trittico con Storie della Passione proveniente da San Giovanni a Carbonara, giunto a noi quasi integro, è una delle testimonianze più significative di quest’arte, prodotto di poliedrica bellezza, assieme scultura e oggetto d’arte decorativa, racconto divulgativo dei testi sacri e manufatto “suntuario” di ricercata bellezza, frutto di produzione seriale ed oggetto destinato alla altolocata committenza degli Angiò Durazzo, nel cui “pantheon” sepolcrale era custodito.
È un’opera, dunque, che incarna alla perfezione la sensibilità fastosa dell’ultima stagione dell’autunno del Medio Evo.
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Il testo di Paola Giusti è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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