L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Oltre il diluvio di Filippo Palizzi
Non si fermano i nostri racconti legati alle opere del Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Maria Tamajo Contarini, curatore di dipinti e sculture della prima metà dell’Ottocento ci presenta Oltre il diluvio di Filippo Palizzi, opera che fonde gli studi dal vero in una composizione fantastica, del tutto immaginata in cui la natura ha un ruolo propulsore, vivace e vitale, che si allontana dalla concezione drammatica di cultura romantica e apre alle speranze per la vita che riprende.
Nel dicembre del 1860 la stampa cittadina dedica ampio spazio alla notizia che Emanuele II, sovrano del giovane Regno d’Italia, intende far eseguire a proprie spese opere di pittura e scultura dai maggiori artisti napoletani.
Il re, desideroso di lasciare segnali della politica della corte Savoia, avvia una campagna di acquisti e commissioni ad artisti utile per costituire una Galleria di opere napoletane moderne.
Costituire una Galleria di opere napoletane moderne da allestire nella reggia di Capodimonte, secondo un progetto avviato dai Borbone, fu una precisa volontà della corte appena insediata.
Anche se la notizia dell’impegno della corte a sostenere il progetto della Pinacoteca moderna risale al 1862, la campagna di acquisti per Capodimonte documenta una frenetica attività di acquisizioni già dal 1860, come si evince dagli inventari di ingresso delle opere nel museo e dall’incarico di riordinamento della quadreria affidato a Saverio Altamura in questi stessi anni.
Il concorso, dal quale sarebbero state selezionate cinque opere, era rivolto ad un gruppo di artisti il cui elenco fornisce una interessante fonte per la definizione dei generi pittorici in voga: Saverio Altamura, Domenico Morelli sono invitati a realizzare opere di soggetto storico nazionale, Filippo Palizzi eseguirà un quadro nel suo genere.
Seguono Celentano, Cefaly, Marinelli, Migliaccio, Sagliano, Petruccelli, a cui viene chiesta un’opera libera, e ad altri, Vertunni, Nicola Palizzi e Carrillo viene chiesto di eseguire un’opera non minore di palmi sei.
Concludono la lista Gigante e Giuseppe Abate, il primo deve realizzare un acquerello ed il secondo un interno.
Artisti partecipi del cambiamento in direzione degli ideali antiaccademici e per questo riconosciuti come maestri della nuova pittura napoletana.
Filippo Palizzi scelse di rappresentare un soggetto in cui avrebbe messo a frutto le ricerche animalistiche avviate sin dagli esordi.
Fonte per la definizione iconografica è il libro della Genesi, come riferisce in una lettera ai fratelli del 24 marzo 1864 presente nel Carteggio Palizzi conservato nell’Archivio Comunale di Vasto.
Il dipinto fu terminato nel 1864 divenendo testimone, assieme ai bozzetti realizzati nel 1861 (Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna e Napoli, Accademia di Belle Arti), degli studi sugli animali condotte da Filippo tra il 1860 e il 1864, in cui tappa fondamentale rappresentarono i viaggi a Parigi del 1861 e 1863.
Attraverso l’analisi del Carteggio e dei Taccuini si ricostruisce l’interesse per l’animalistica e le sue fonti, come ben evidenziato dalla Picone Petrusa nell’ultima monografia dedicata all’artista (Filippo Palizzi. La natura e le arti, Vasto 2018, a cura di L. Arbace).
Dal viaggio in Moldavia del 1842 riporta l’osservazione per cammelli, arpie e orsi mentre a Parigi associa l’osservazione dei dipinti del museo del Lussemburgo a quella degli animali ripresi dal vivo nel Jardin des Plantes.
In una atmosfera sulfurea e indistinta, lontana dalle moraleggianti raffigurazioni del Diluvio universale della pittura precedente, due rocce del monte Ararat in Armenia, appena liberate dall’acqua, fanno da sfondo agli animali finalmente liberati che, nell’entusiasmo di poter procedere alla nuova creazione, occupano gran parte della tela.
Il paesaggio è riecheggiato da tronchi d’alberi, “della palma, dell’abete e della quercia”, presenze superstiti di un mondo ormai scomparso.
Gli uccelli, i primi ad uscire, volano alla ricerca di un luogo su cui posarsi.
Un accenno di arcobaleno apre alle speranze per la vita che riprende.
I diversi studi dal vero si incontrano in una composizione fantastica, del tutto immaginata in cui la natura ha un ruolo propulsore, vivace e vitale, che si allontana dalla concezione drammatica di cultura romantica.
Furono probabilmente questi elementi che delusero l’allievo Michele Cammarano che si dichiarò meravigliato di non vedere rappresentato “tutto l’orrore del cataclisma”.
Morelli invece guarda al dipinto con grande interesse:
“L’animale si staccava talmente dal cavalletto, era talmente vero, che pareva dovesse cadere a terra! Una composizione ardita, immaginosa, che egli aveva concepita nella sua mente, e non copiata, né vista dal vero”.
Il dipinto Oltre il diluvio è accompagnato da una importante cornice dal forte accento decorativo, realizzata dallo scultore e intagliatore fiorentino Pietro Cheloni, alla cui ideazione partecipa lo stesso Filippo Palizzi.
Il controllo di tutti gli elementi che costituiscono l’opera finita è un segno specifico dell’arte di Palizzi, artista a tutto tondo che manifesta interesse, già dalle esperienze degli esordi, per la produzione ceramica e per l’intaglio dedicandosi allo studio per le mappe topografiche e alle cornici per le sue opere, occupandosi di disegnare lui stesso quelle per i dipinti delle collezioni dell’Accademia a Napoli e della Galleria d’Arte Moderna a Roma.
La committenza reale dell’opera impegna particolarmente Filippo, come ricorda Morelli a proposito della sua attività:
“Il museo ha relazioni immediate con l’Istituto di Belle Arti. L’arte maggiore guida perennemente, in tutte le manifestazioni della forma, l’arte decorativa”.
Sarà proprio Palizzi a chiedere di inserire al centro dell’asse superiore la figura dell’Eterno Padre che, nel gesto della benedizione che rianima la natura, allarga la visuale del dipinto e accentua il carattere spirituale della rappresentazione.
Assieme decidono l’imponenza della cornice che nella decorazione riporta tralci di ulivo, motivi vegetali riferiti al ritorno della colomba che avvisa del ritiro delle acque del diluvio, stelle, raggi di luce, elementi della bellezza cosmica che simbolicamente accoglie e contiene il nuovo mondo rappresentato sulla tela. Conferendo alla cornice una funzione di contenimento e estensione del dipinto.
L’origine della collaborazione tra i due potrebbe essere stata favorita da Morelli, consulente del banchiere svizzero Giovanni Vonwiller, committente di Cheloni già nel 1861 a Firenze, a cui il pittore dedicò un ritratto conservato nel Museo Nazionale di S. Matteo a Pisa.
Tra l’altro il mobile di noce in stile rinascimentale, presentato all’Esposizione di Firenze del 1861, per cui Cheloni aveva ricevuto una medaglia per i lavori di intaglio, era di proprietà di Vonwiller.
Nei repertori e negli elenchi delle esposizioni della seconda metà dell’Ottocento Cheloni compare tra i maestri dell’intaglio assieme al senese Angiolo Barbetti, di cui fu allievo ed erede di alcune prestigiose committenze come quella per i Demidoff di Firenze.
Sempre Morelli potrebbe essere stato fautore del coinvolgimento dell’intagliatore anche nella grande impresa decorativa per la nuova sala da pranzo di Palazzo Reale che Cheloni realizza tra il 1862 e il 1864, impegnativa committenza della corte sabauda che riceve mentre era a Capodimonte.
Per l’ambiente, oggi denominato Sala Diplomatica, Cheloni si inserisce nei lavori diretti dall’architetto Luigi d’Angelo che videro all’opera numerose maestranze: bronzisti, passamantieri, tapezzieri, doratori, produttori tessili e artisti chiamati per eseguire i dipinti da inserire nelle sovraporte: Pasquale Di Criscito, Giovanni Ponticelli, Francesco Peluso, Giuseppe Bocchetti, Gioacchino Toma e Francesco Netti che condussero il lavoro con la supervisione di Morelli.
Nei rendiconti più volte compaiono riferimenti alla cornice del Diluvio il cui lavoro termina probabilmente nel giugno del 1864.
La stretta rete di relazione tra gli interventi eseguiti nelle due residenze reali napoletane, riscontrabile in alcuni elementi decorativi come la grande testa di leone sul prospetto della grande consolle di Palazzo Reale che ricorda gli studi naturalistici di Filippo, è confermata dalla compresenza di alcune maestranze, tra queste il doratore Antonio Simonetti, attivo a Capodimonte per lavori di doratura nell’Appartamento reale, è a Palazzo Reale per le dorature da eseguire nella sala adiacente, detta dei Camuccini.
Collaborazioni che aprono prospettive di ricerche sulla storia dell’intaglio ligneo a Napoli: tra gli allievi di Cheloni il fiorentino Emilio Franceschi riceverà dopo qualche anno l’incarico per la Culla di Vittorio Emanuele III (1869) disegnata da Morelli.
Si stabilì in città occupandosi della produzione di mobilia di alta qualità, contribuendo alla definizione moderna dell’intaglio che divenne uno dei settori di crescita economica della città, certamente premessa della evoluzione dell’artista a favore della produzione scultorea.
Il consenso per Oltre il diluvio è unanime, la grande tela fu premiata con la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1867.
L’incisore Saro Cucinotta tradusse l’opera in una calcografia di grandi dimensioni e lo studio fotografico Grillet realizzò la ripresa del dipinto in tutte le sue parti, in ossequio alla nuova tendenza di riprodurre fotograficamente i dipinti contemporanei.
Dell’immediato interesse del mercato alla riproduzione dell’opera si sbalordisce lo stesso Filippo che, ancora nella lettera del 24 marzo, scrive entusiasta ai fratelli di aver guadagnato per la vendita delle incisioni una cifra che gli consente di dedicarsi agli studi in corso a Parigi per altri diciotto mesi.
Il testo di Maria Tamajo Contarini è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”
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