L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Il trittico della Scorziata: un’opera ritrovata
Per la consueta rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… vi proponiamo il testo di Marina Santucci, docente presso l’università Federico II e presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, curatore e coordinatore del laboratorio di restauro a Capodimonte fino al 2017, sul ritrovamento del trittico della Scorziata, esposto nella galleria delle arti a Napoli al secondo piano del Museo.
La storia del salvataggio di un’opera d’arte preziosa che ha svelato la sua bellezza grazie ad un lungo e accurato intervento di restauro.
Il ritrovamento del trittico della Scorziata, oggi esposto al secondo piano del Museo nelle prime sale dedicate alle arti a Napoli di età aragonese, racconta la storia di un fortunoso salvataggio di una preziosa opera d’arte della seconda metà del Quattrocento.
Fu trasferito nei laboratori di restauro di Capodimonte dalla dottoressa Gemma Cautela, funzionario dell’allora Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli, di cui faceva parte Capodimonte assieme a tutti gli altri musei della città.
L’opera, di cui si erano perse le tracce da moltissimo tempo, era stata ritrovata nel 2002 in un ambiente dell’Arciconfraternita dell’Opera Pia che aveva sede nei locali sovrastanti la chiesa della Scorziata.
La chiesa, la cui denominazione completa è Presentazione di Maria al Tempio della Scorziata, situata in vico Cinquesanti vicino alla basilica di San Paolo Maggiore, può essere tristemente annoverata tra le più sfortunate di Napoli, oggetto di ripetuti furti e danneggiamenti, di cui uno terribile del 1997 in cui furono divelti i marmi, trafugate le tele, rubati gli arredi lignei.
Del nostro dipinto, di cui si aveva memoria in una antica schedatura del complesso della Scorziata del 1935, nei numerosi sopralluoghi effettuati dopo il furto dai funzionari della Soprintendenza per cercare di salvare il salvabile, nessuna traccia.
È misteriosamente riapparso nel 2002 e poi messo in sicurezza a Capodimonte.
La chiesa era stata fondata da Giovanna de Scorziatiis, da cui il tempio prende il nome, nel 1557; la nobildonna, appartenente a una delle famiglie più antiche e potenti della città, perse tutti i cinque figli che aveva avuto dal matrimonio con Fabrizio Brancaccio.
Straziata dal dolore, rimasta vedova, decise di fondare, assieme a Lucia e Agata Paparo, la chiesa e un ritiro per giovani bisognose. A questo scopo adibì una parte del contiguo palazzo di famiglia.
Del palazzo rinascimentale, adesso completamente modificato a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, si conserva il bellissimo portale in marmo bianco costituito da elementi di spoglio, con le insegne delle famiglie Cortese e Miroballo, precedenti proprietari; la nicchia a conchiglia in alto dove era posto il busto marmoreo di Ferrante d’Aragona, anch’esso oggi a Capodimonte; e, nel cortile, la sequenza degli archi in piperno.
È qui, nella magnifica dimora rinascimentale, nella quale si conserva memoria di una ricchissima biblioteca, ma che doveva vantare anche un adeguato numero di dipinti e arredi di pregio, che possiamo ipotizzare la collocazione originaria del nostro trittico.
Il palazzo era stato acquistato nel 1482 da Giulio De Scorziatiis, giureconsulto, legato al re Ferrante I d’Aragona e alla sua corte.
Per la sua abilità giuridica e diplomatica ricoprì le cariche più prestigiose del regno, fino a diventare nel 1486 luogotenente del gran camerario, carica che lo pose a capo della Regia Camera della Sommaria.
Il suo legame con Ferrante fu strettissimo: fu suo consigliere assieme al Pontano, seguì il re nei suoi continui spostamenti nella penisola e in Spagna; nel suo palazzo si riunivano i più importanti personaggi del regno e finanche il re vi si recava personalmente per consultare il nobile napoletano.
Si ricorda a questo proposito un significativo episodio, che enfatizza il grande rispetto di cui godeva da parte del re: Ferrante, recatosi al palazzo di Giulio de Scorziatiis, avendo saputo che questi riposava, preferì non disturbarlo.
Ancora a suggellare lo stretto legame con la famiglia reale, sappiamo che fu Alfonso, duca di Calabria, a tenere a battesimo il figlio di Giulio, Giovanni Antonio, nato nel 1488.
Con grande spregiudicatezza, carattere che gli fu riconosciuto anche da Machiavelli, con l’ascesa al trono di Federico d’Aragona a fine Quattrocento, tradì la corona aragonese per schierarsi con i francesi, scappò a Roma e nel 1499 fu nominato consigliere e ciambellano regio da Luigi XII di Francia.
Rientrato a Napoli nel 1501, fu arrestato e imprigionato nelle carceri di Castel Nuovo per poi riprendere in parte la sua attività con la definitiva affermazione del potere spagnolo. Morì prima del 1520.
Il dipinto è arrivato nei laboratori di restauro di Capodimonte con un aspetto diverso.
Non un trittico ma una unica tavola ottenuta con la eliminazione della cornice a colonnine, di cui si intravedevano ancora piccole tracce, l’avvicinamento degli scomparti, l’ingrandimento con l’aggiunta in alto di una fascia dove sono raffigurati angioletti in volo di gusto tardo manierista, di delicata fattura; su tutta la superficie pittorica era stata stesa una densa vernice scura che rendeva omogenea la tonalità complessiva del dipinto.
Molto probabilmente l’intervento si può far risalire al Seicento, quando era molto diffusa la pratica di ammodernare i dipinti sia per esigenze devozionali sia per adeguarsi al gusto corrente.
La tavola è stata affidata ai restauratori Luigi Coletta e Claudio Palma, colonne portanti del laboratorio di restauro di Capodimonte, ed è cominciato un lungo e accurato intervento di restauro.
Si è proceduto a liberare la tavola dall’aggiunta della fascia superiore, poi si sono svolte le operazioni consuete di disinfestazione, consolidamento del supporto e della superficie pittorica per arrivare alla pulitura.
E qui sono arrivate le sorprese.
In realtà, già si intuiva che sotto la spessa vernice scura si nascondeva un’opera di grandissima qualità, ma man mano che si procedeva nella pulitura venivano fuori particolari preziosi, lumeggiature, dettagli che hanno confermato che ci trovavamo davanti a un’opera bellissima: la snella figura della Santa Caterina, dal copricapo intrecciato con fili d’oro, la ricomparsa della spada, simbolo del martirio – come è noto la santa, di nobile e colta famiglia, fu decapitata dopo essere miracolosamente sfuggita al supplizio della ruota dentata – il sontuoso abito con motivi ad arabesco rosso e oro, la rilegatura damascata del libro.
Nello scomparto di sinistra, il San Giovanni, dalla figura scarna e asciutta, con il volto segnato dalle rughe, dai lineamenti marcati, quasi scultorei, regge la croce; sotto il mantello, raccolto in ampie pieghe intorno alla vita, è emerso un brandello della pelliccia.
Al centro è raffigurata la Madonna in trono con il Bambino: la pulitura ha accentuato tutta la naturalezza e l’intimità del gesto del Bambino che porta alla bocca la mano della madre; è emersa la ricchezza cromatica del vestito, dal rosso all’azzurro del manto, al biancore del velo che incornicia con le sue onde il volto dolcissimo della Madonna; sono divenute visibili le decorazioni del trono dallo schienale a foglia d’oro sul rosso del bolo e i motivi geometrici della base.
La superficie pittorica è risultata sì sgranata in più punti con abrasioni diffuse e varie mancanze, soprattutto lungo i bordi, ma sostanzialmente non sono comparse grandi lacune, i colori hanno mantenuto stabilità e consistenza; grazie alla integrazione sensibile e accorta dei restauratori, è stato possibile ricucire l’aspetto pressoché completo del dipinto.
Il disegno sottostante, rivelato dalla riflettografia a infrarossi eseguita da Claudio Falcucci, è apparso molto definito anche nei particolari, con le ombreggiature realizzate a tratteggio incrociato.
Ma chi è l’autore del dipinto? La risposta non è facile.
Sono scarne le notizie, anche per essere stata l’opera sottratta per molti decenni all’attenzione degli studiosi.
In una nota delle Rotte Mediterranee (1977, p. 94) Ferdinando Bologna ha menzionato il trittico della Scorziata nel gruppo di opere attribuite al cosiddetto Maestro della Pietà di Piedigrotta, personalità ricostruita da Raffaello Causa (1960, p. 49) e così chiamato appunto dalla tavola di Santa Maria di Piedigrotta a Napoli raffigurante la Pietà tra la Madonna delle Grazie e il Sant’Antonio da Padova.
A queste due opere, Bologna ha aggiunto la tavola con i Santi Stefano, Sebastiano e Giorgio della chiesa dei Santi Severino e Sossio.
Nella stessa nota, Bologna ha avvicinato il trittico della Scorziata a un’opera presente nel convento delle suore cistercensi a Guadalajara in Spagna, attribuita dal Post ad un artista iberico per il quale è stato coniato lo pseudonimo Luna Master; Bologna avanza l’ipotesi che questi possa essere l’autore anche del trittico della Scorziata.
A restauro completato, abbiamo invitato nel 2012 Ferdinando Bologna a visionare il dipinto: in questa occasione lo studioso ha confermato il rapporto stretto con la Pietà di Piedigrotta, ma si è mostrato molto più cauto sulla possibilità di identificare quest’ultimo con lo spagnolo Luna Master.
Punto fermo per cercare di inquadrare l’autore del dipinto rimane quindi il confronto con la Pietà di Piedigrotta, ravvisabile nella resa dei panneggi e dei volti della Madonna e dei santi, ma anche in quelli raffigurati a monocromo nei tondi che ornano il loggiato della villa di Poggioreale sullo sfondo.
Ma l’inserimento del trittico nel percorso del secondo piano del museo di Capodimonte, suggerisce riflessioni e confronti con i suoi vicini di sala: riferimento imprescindibile rimane il grande Polittico dei santi Severino e Sossio, il cui autore, ancora ignoto, fu il motore propulsore e pietra miliare della complessa cultura artistica del secondo Quattrocento a Napoli; convincente, anche per la modalità della esecuzione, il confronto con la piccola tavola dell’Annunciata, di ignoto pittore napoletano, datata al 1470-75 circa, da riferirsi alla cultura del Maestro del polittico di San Severino (Leone de Castris,1997, p. 87).
Si possono inoltre individuare molteplici influenze per lo sconosciuto autore della Scorziata, che sembra aver viaggiato molto anche nella penisola, assimilando conoscenze di vasto respiro: la lezione di Masaccio, forse attraverso la mediazione del Sassetta, la conoscenza di Ercole de Roberti e dei maestri ferraresi, la cultura lombardo-veneta che si diffonde con sempre maggiore forza a Napoli nell’ultimo quarto del Quattrocento.
Gli studi sul Quattrocento aragonese sono da sempre importante campo di ricerca e negli ultimi anni ci sono stati contributi e ricerche fondamentali che, facendo emergere artisti come Costantin de Moyses e Calvano da Padova, impegnati nelle residenze reali della Duchesca e di Poggioreale, hanno delineato nuovi scenari in cui poter collocare il nostro trittico (Fiorella Sricchia nel 2015 e più recentemente, nel 2019, Nicoletta Di Blasi).
Discorsi complessi e strade tutte ancora da percorrere che ora possono essere finalmente intraprese con la restituzione del dipinto agli studiosi e a tutti i visitatori del museo di Capodimonte.
Il testo di Marina Santucci è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
Leggi tutti gli articoli della rubrica
Seguite gli aggiornamenti sul nostro blog e i nostri canali social