L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Giuseppe Renda e il rinnovamento della scultura a Napoli tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento
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Sulla scorta di questo successo, abbiamo deciso di andare oltre e aprire questa rubrica a tutti i docenti di ogni Università che vorranno farci pervenire il loro punto di vista sulle opere di Capodimonte.
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Oggi pubblichiamo il testo di Diego Esposito, docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli che propone un viaggio alla scoperta di Giuseppe Renda e della scultura a Napoli e del suo rinnovamento tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Una breve rielaborazione dell’intervento presentato nelle giornate di studi organizzate a conclusione della mostra Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere (21 dicembre 2018 – 15 ottobre 2019), a cura di Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, nell’Auditorium del Museo e Real Bosco di Capodimonte, che hanno proposto una rilettura delle collezioni, stimolando nuove esperienze e confronti ancora da scrivere.
Verso la metà degli anni Ottanta dell’Ottocento si registrò a Napoli l’improvvisa sparizione dalle scene artistiche locali di alcuni grandi scultori, che nel decennio precedente avevano fortemente acceso il dibattito critico nazionale e internazionale.
Tra questi ricordiamo: Filippo Cifariello che fu assente dalla città partenopea dal 1886 al 1905, stabilendosi prima a Roma e poi in Germania; Vincenzo Gemito che dal 1887 al 1909 visse per ventidue anni chiuso nella propria abitazione, aggredito continuamente da attacchi psicotici che gli procurarono paranoie e visioni; Giovan Battista Amendola che scomparve improvvisamente a trentanove anni nel 1887; Achille d’Orsi che dal 1887 si dedicò alla docenza presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli, rallentando drasticamente la propria produzione plastica. Infine, contemporaneamente, si registra la profonda crisi creativa che visse Raffaele Belliazzi.
Ma sebbene l’ambiente della plastica nel napoletano si fosse impoverito della forza creatrice di queste rilevanti personalità, proprio allo scadere degli anni Ottanta si registrò l’ascesa di una compagine di scultori che, fino a quel momento, erano rimasti all’ombra della critica, e tra gli altri ricordiamo Giuseppe Renda (Polistena/RC 1859 – Napoli 1939).
Renda, nel giro di poco tempo, divenne uno degli scultori più acclamati dalla critica e più apprezzati dal pubblico di tutto il mondo, come attestano i numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, le recensioni giornalistiche dell’epoca e le numerose lettere di privati italiani e stranieri che richiedevano sue opere da collezionare.
Negli anni Ottanta, egli, come la maggior parte degli scultori attivi nel napoletano, proseguì le proprie ricerche artistiche nel solco già tracciato da Gemito, da d’Orsi e da Amendola ma allo stesso tempo fu il primo a manifestare la volontà di superare i modelli estetici acquisiti, di rinnovarli piuttosto che consolidarli attraverso pedisseque e sterili ripetizioni. La precocità di Renda si manifesta nello splendido nudo femminile intitolato Alma Venus, presentato per la prima volta alla XXIV Promotrice napoletana del 1888, che destò “molta ammirazione e molta lode”.
La sua Venere pur essendo una chiara derivazione della più nota Venere che avvolge la chioma di Amendola, del 1886 circa, manifesta una maggiore ricerca di movimento della figura nello spazio e un’altrettanta accentuazione della carica sensuale del nudo femminile.
Il binomio movimento e sensualità sarà una costante in tutta la sua produzione che ha per soggetto il nudo femminile, come si evidenzia in Ondina del 1898 (Roma, La Galleria Nazionale) e in Venere Katia, databile tra il 1888 e il 1898, giunto nelle collezioni del Museo di Capodimonte grazie al dono che ne fece Paolo Ricci nel 1983.
Ma la produzione di Renda non si limita alla realizzazione di figure femminili dalle pose languide e dalle espressioni voluttuose ma comprende al proprio interno anche un cospicuo numero di ritratti e di scene di genere oltre ad una grande quantità di figure, di vario formato, dedicato al microcosmo infantile.
Non vi è dubbio alcuno che i ragazzini di Renda siano una prosecuzione di quella produzione di Gemito dedicata agli scugnizzi dei vicoli di Napoli, realizzata a partire dagli anni Settanta, ma ancora una volta Renda seppe rinnovare il modello di partenza acquisito introducendo nelle proprie opere quella componente vitale e gioiosa che espresse attraverso volti sorridenti e corpi guizzanti nello spazio, come fu già sottolineato dalla critica coeva:
“Tutta l’arte di Giuseppe Renda è una continua felicissima ricerca di armonie plastiche. E non è azzardato affermare che la statuetta dello ‘scugnizzo’, sapientemente modellata, con il suo volto spavaldo e ridente può degnamente considerarsi come derivazione di quei capolavori creati dal genio di Vincenzo Gemito e raffigurati nelle sue espressioni più tipiche di monello napoletano” (Dell’Erba, 1935).
Emblematico di quella produzione che è Prima ebbrezza del 1895 (Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte), soggetto due volte premiato dalla critica e di grande successo di mercato, ma ricordiamo anche Le voilà, straordinariamente interessante per soluzione compositiva e coinvolgimento emotivo.
Non vi è dubbio che Renda svolse un ruolo assolutamente centrale negli sviluppi della scultura napoletana tra Otto e Novecento, incidendo profondamente nel tessuto artistico locale e giungendo finanche a condizionare i gusti del mercato dell’arte e gli orientamenti dei colleghi scultori.
Riflessi delle ricerche rendiane si colgono pienamente in tutta la produzione di Gabriele Parente e di Vincenzo Aurisicchio, oltre che in una certa produzione di più giovani scultori come Francesco Parente, Giovanni De Martino, Gaspare Bisceglia, Edgardo Simone e Pasquale Minucci.
Renda divenne un punto di riferimento anche per quella generazione più matura di scultori attivi a Napoli, infatti riverberi della sua estetica si scorgono nel famoso gruppo intitolato Piedigrotta di Francesco De Matteis, databile 1895-96, in Pathos di Achille d’Orsi del 1898, in Ebbrezza di Costantino Barbella del 1912, in Sorriso di Filippo Cifariello del 1920, solo per fare qualche esempio.
Ma l’aspetto straordinario della sua personalità risiede nel suo continuo rinnovarsi esteticamente, infatti a partire dal 1909 le sue ricerche lo condussero verso risultati totalmente inediti nell’ambito della coeva scultura napoletana.
In questo nuovo percorso figurativo si collocano le due splendide terrecotte di collezione del Museo di Capodimonte intitolate rispettivamente Ritratto di fanciulla/Ritratto di Terra del 1909-1910 circa e Scugnizzo napoletano degli anni Dieci, dalle forme più suggerite che definite minutamente, che lasciano alla luce il compito di creare vibranti effetti luministici sulle scabre superfici plastiche.
Questa produzione che non trova confronto nella locale scultura napoletana, può essere messa solo in relazione con le coeve ricerche pittoriche condotte nell’ambito del napoletano Gruppo dei Ventitre, volte verso personali reinterpretazioni dell’impressionismo e postimpressionismo francese, già a partire dal 1909.
Nette, infatti, appaiono le vicinanze tra Ritratto di fanciulla/Ritratto di Terra con il dipinto intitolato Impressione della moglie di Francesco Galante del 1909, oppure Scugnizzo napoletano con Villanella di Eugenio Viti del 1911, per medesime concezioni formali e definizione degli elementi compositivi.
L’interesse di Renda sembrerebbe, quindi, essere fortemente orientato verso soluzioni plastiche di tipo impressionista che, a Napoli a quella data, non trova paralleli né negli scultori membri del Gruppo né nel panorama più ampio degli scultori locali.
Si potrebbe solo ipotizzare che Renda abbia avuto modo di conoscere alcune opere di Medardo Rosso e/o di Paolo Trubetzkoy, considerati impressionisti già dalla critica coeva, che divennero per lui pretesto per una rielaborazione personale di quelle componenti formali e che caratterizzarono tutta la sua futura produzione plastica.
Scopri la mostra Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere (21 dicembre 2018 – 15 ottobre 2019)
Il testo di Diego Esposito è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
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