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Il ricordo di un esule al Museo e Real Bosco di Capodimonte

Marinella Lupieri Cavazza, figlia di un’esule istriana, ha scritto una lettera intitolata Vagando e Divagando nel Bosco.

Il Real Bosco di Capodimonte dove ha “adottato  una panchina” dedicandola alla memoria della madre Nerea Lupieri che “amava Pola e Napoli”.

La panchina dove erano i campi dei rifugiati del dopoguerra, dove resta vivo il ricordo di lei che le siede sempre accanto.

 

VAGANDO E DIVAGANDO NEL BOSCO

di Marinella Lupieri Cavazza

 

Lo sguardo perso nell’azzurro del cielo, si abbassa tra i due gruppi di palme per bearsi della vista della fanciulla addormentata, l’isola azzurra che giace all’orizzonte.

Una brezza leggera mi accarezza le guance con la stessa levità delle dita di mia madre.

Sul mare i gabbiani con le ali spiegate si lasciano portare dalle correnti ascensionali, liberi e rilassati.

Mi giro per raggiungere il lato opposto del parco in un pellegrinaggio di nostalgia, d’amore e dolore.

Ritto su di un cespuglio un merlo fischia in cerca di una compagna; nelle aiuole i colombacci frugano nell’erba, alla ricerca di nutrimento.

Io mi nutro di bellezza, dell’arte e della musica che vengono dalla natura.

Attraverso la Porta di Mezzo, con la sensazione di entrare in un altro mondo, un bosco incantato abitato da fate e fuochi fatui.

Le fate narrano della bellezza dei prati, delle cacce dei re, delle passeggiate delle principesse, dei giochi con la palla dei bimbi che vedo ridere felici.

Sento anche il trillo felice della cinciallegra, fischietto anch’io, la cerco tra i rami ma non la vedo.

Lei risponde al mio fischio e mi basta sapere che c’è per sentirmi serena.

Continuo a camminare e a ricordare.

I fuochi fatui raccontano del dolore delle persone che qui si rifugiarono tanti anni fa.

Guerra, la strega cattiva che tutto ingrigisce dove passa, aveva spento i colori della terra di mia madre e di altri trecentomila.

Costretti a fuggire dall’Istria, dalla Dalmazia, da Fiume alcuni trovarono ospitalità in baracche costruite alla svelta sotto le stesse magnolie che videro le magnificenze dei re: lamiere come pareti e come tetti, fredde d’inverno, calde d’estate.

Nei prati si faceva il bucato in lavabi improvvisati e le corde per stendere erano tra gli alberi.

Un grande recipiente conteneva l’acqua e un ramaiolo che tutti utilizzavano per bere.

Da qualche parte crescevano i funghi e i ragazzi del Borgo di Capodimonte che lo sapevano, li nascondevano sotto le foglie secche per timore che i nuovi arrivati gli togliessero un magro pasto.

A scuola si ritrovavano, napoletani e fiumani, polesani e dalmati a dividere giochi, studio e miseria.

Sotto i lecci, i tigli e gli aceri si aggiravano persone che avevano perso tutto ma si innamoravano, si sposavano, accompagnavano i figli a scuola e al catechismo e piano piano si rifacevano una vita attraverso il lavoro.

Alcune famiglie restarono fino agli anni sessanta ma poi quasi tutti quegli italiani onesti e laboriosi, che lasciarono la terra natia per restare italiani, quelli che resistettero e non impazzirono né si suicidarono né si uccisero con l’alcool, si inserirono nelle nuove realtà che li avevano accolti.

Mia madre non passò dal Bosco: suo padre era in un altro campo, a Fuorigrotta, e per poterlo rivedere venne a Napoli e s’innamorò perdutamente di una città che aveva Pola nel nome e tanto gliela ricordava nel mare, nell’arte e nell’archeologia.

Una città di mare, un porto, una mentalità aperta che rimpiangeva, costretta com’era in una piovosa e grigia città del nord.

Si trasferì, con la bambina che ero.

Aveva frequentato il liceo artistico, amava la classicità, la bellezza e gli alberi.

È stata la prima a portarmi qui e ad insegnarmi ad amare il bello, che sia opera di Dio o dell’uomo.

Restò sempre una polesana, ma amò e difese sempre Napoli a spada tratta, si “ammalò” di Napoli.

Verso la fine della vita manifestò il desiderio di tornare almeno una volta a Pola, ma il destino non ha voluto che accadesse.

Mentre penso a tutto queste cose sono arrivata davanti alla Casina della Regina: quando c’era la baraccopoli, qui si era stabilita la Croce Rossa che si occupava di igiene e sanità.

Di fronte, oltre un altro grande prato di smeraldo, la targa che ricorda come Napoli accolse quegli sfortunati.

Per osservarla mi siedo sulla “nostra” panchina: l’ho voluta io, e l’ho voluta proprio lì.

C’è scritto: ho tanto amato Pola, ho tanto amato Napoli.

Mia madre viene a sedersi accanto a me: non piange più, il suo ultimo esodo, da questa terra al cielo, l’ha consolata, l’ha innalzata al di sopra di tutte le miserie e i sentimenti umani per proiettarla nell’Amore divino che tutto comprende e tutto perdona.

Ora ci son io, con i suoi geni che mi domando chi sono: ho imparato il suo dialetto, ma anche il napoletano, ho imparato ad amare l’Istria ma anche Napoli.

Quando mi viene “appocundrìa” è a Partenope che penso, affascinante sirena che ti ammalia con la bellezza e il canto.

E mi ritrovo tra i sentieri del Parco, a chiacchierare con mia madre che sola può capire questa malinconia canaglia.

Abito vicino a quel confine da cui mia madre aveva giurato che sua figlia sarebbe stata per sempre lontana.

Ogni volta che torno a Napoli la visita al Bosco è d’obbligo, non posso farne a meno, mi aspetto che tortore e merli, passeri e cince mi salutino come persona conosciuta e che mia madre venga all’appuntamento sulla nostra panchina per immergermi nel verde e nel silenzio pieno di trilli del Bosco.

 

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