Charlie Davoli a Capodimonte
Lo sguardo visionario di Charlie Davoli, musicista e fotografo acclamato dal web e dallo sbalorditivo seguito su Instagram, ha incontrato le opere delle collezioni del Museo di Capodimonte dando vita ad un connubio straordinario, un nuovo scenario onirico.
La potenza delle immagini e il suo modo di reinterpretare le opere e gli spazi del museo ci hanno impressionati a tal punto che abbiamo voluto intervistarlo per farci raccontare la sua esperienza.
Riccardo Schirinzi, in arte Charlie Davoli, nasce a Singapore e all’età di 6 anni torna a vivere in Italia nella terra paterna, un piccolo paese nella penisola Salentina.
La sua visione sarà costantemente segnata dall’incontro di queste due culture così lontane così come dalla musica, anche dopo lo scioglimento della band Studio Davoli e i suoi due album di successo di musica indie.
L’approdo ad Instagram è la diretta conseguenza del bisogno di filtrare il suo immaginario e comunicarlo in modo immediato.
I suoi scatti esclusivi con l’I-phone danno vita ad un mondo di paradossi onirici in cui soggetti, forme, colori e movimenti, tra De Chirico, Bauhaus, Warhol e Lichtenstein, fondono l’equilibrio geometrico all’inganno prospettico che cattura la curiosità dello spettatore.
Ed ecco come Charlie Davoli risponde alle nostre domande:
Parlaci del tuo lavoro, quali sono le fasi del processo creativo e come e da cosa ti lasci ispirare. Hai già in mente cosa accadrà quando inquadri un soggetto?
In genere mi lascio trasportare dal caso e dalle sensazioni del momento, altre volte invece appunto delle idee istantanee qua e là, alle quali seguono le realizzazioni. A questa immediatezza di processi ha contribuito enormemente l’utilizzo di uno smartphone, soprattutto nel primo periodo dei miei lavori, infatti mi ha consentito di azzerare i tempi di creazione: allo scatto seguiva immediatamente l’editing digitale.
Tra le tue influenze artistiche emerge con evidenza il surrealismo di Magritte, talvolta citato esplicitamente. Quali altri autori contribuiscono alla formazione della tua poetica dell’immagine?
Potrà sembrare strano, ma di Magritte conosco ben poco, nonostante il richiamo possa sembrare esplicito. Il mio approccio all’immaginario surrealista deriva da altre fonti di ispirazione. Si tratta per lo più di fascinazioni cinematografiche che mi hanno lasciato un segno sin dai tempi dell’infanzia, ad esempio i mondi fantastici di George Lucas e Spielberg o le potenti immagini visionarie di Kubrick e Antonioni. Menzione d’onore va all’onirico immaginario di Chris Cunningam, che ha inciso profondamente sul linguaggio metafisico dei miei collage digitali. L’irreale danza subacquea nel video clip Only You dei Portishead, è un’ipnotica sequenza in cui Cunningam rappresentò perfettamente il paradosso fisico. La linea di confine tra aria ed acqua si assottiglia talmente tanto che gli elementi sembrano essere una sola cosa. E’ un tema ricorrente nei miei lavori.
Le copertine visionarie dello Studio Hipgnosis sembrano un altro punto di riferimento costante, dallo spazio metafisico di Wish you were here dei Pink Floyd a Peter Gabriel che squarcia la propria immagine con le dita/artigli nel suo secondo album. Quanto contano i trascorsi musicali assieme a Gianluca De Rubertis e Matilde Davoli nello sviluppo del tuo percorso artistico?
La musica rappresenta di certo quell’universo sensoriale a cui sono profondamente legato. Non vi è alcun trascorso della mia vita, a cui non possa associare una colonna sonora significativa, specie quando gli intrecci sonori si rafforzano con immagini potenti come le architetture melodiche dei Pink Floyd, a braccetto con le copertine concepite dagli Hipgnosis.
Mi sono talmente appassionato a un tale connubio da manifestare il mio primo approccio alla musica, riproducendo ad orecchio sezioni ritmiche/percussive. Il tutto coincise con il periodo in cui insieme ai fratelli De Rubertis (Gianluca, Matilde) e Giancarlo Belgiorno (al basso) mettemmo in piedi una band capace di scorrazzare su e giù per l’Italia semplicemente rappresentando ciò che ci veniva tanto facile fare, ovvero giocare con gli esercizi di stile, scrivere e comporre pezzi alla maniera dei Pink Floyd e Beatles decade 70.
Attraverso questi esercizi abbiamo cercato di cogliere quel codice sorgente di scrittura, facendolo nostro attraverso una nuova e reinterpretata chiave di lettura.
Questo imprinting è rimasto, caratterizzando quell’approccio spontaneo e ludico attraverso cui filtro la rappresentazione del mondo intorno a me.
Come è avvenuto l’incontro col Museo di Capodimonte. Casualità, interesse per l’arte, ricerca di ispirazione?
Al museo ci son venuto di proposito. L’ultima volta risaliva a 17 anni fa, ad una breve gita insieme alla classe di storia dell’arte ai tempi dell’università.
Ero curioso di rivedere a distanza di tanto tempo cosa fosse cambiato nella mia maniera di percepire gli stimoli visivi.
Parliamo degli scatti al Museo di Capodimonte. Abbiamo trovato molto interessante l’idea della cascata che fuoriesce dal dipinto e invade lo spazio destinato a contenere l’arte. Il senso di libertà che trasmette insieme agli uccelli che si alzano in volo. La forza di uno scatto che riesce a trasportarci in un altrove che è immaginato, sentito e quindi anche visto. Si è trattato di un pensiero/ricordo di luoghi lontani, del desiderio di evadere dallo spazio apparentemente chiuso di un museo o altro?
Mi ha sempre divertito percepire l’irreale attraverso gli oggetti della vita quotidiana, ad esempio la percezione del dipinto come cornice/finestra attraverso cui intravedere/attraversare scorci di realtà alternative legate tra loro da un sottile anello di congiunzione. Quella sorta di continuità che unisce l’altra parte con il resto del tutto: la cascata che scorre fuoriuscendo da un mondo possibile all’altro ne è un esempio.
Un’opera d’arte è una finestra aperta su un mondo altro, nei tuoi scatti rappresenti una realtà illusoria o l’illusione della realtà?
Ecco, è una bella domanda. Parto dal presupposto che i nostri sensi ci portano a credere di percepire la realtà apparente, capendola e dominandola di conseguenza. Credo dunque che l’essere umano abbia solo l’illusione di poter comprendere la realtà e quindi trovo giocoso ruotare intorno a questo bel malinteso, con l’intenzione di smascherare questa realtà illusoria.
L’immagine di una mano che esce dal dipinto di Vasari ci mostra concretamente come l’arte riesca a toccarci. La ricerca di un contatto e il coinvolgimento che sentiamo davanti a un’opera. Che cosa ti ha spinto a scegliere un dettaglio di così forte impronta michelangiolesca? E che cosa ha significato per te questo incontro?
Trovo altrettanto divertente tentare di sovvertire quei codici e quei costumi che accomunano l’intelletto umano nella sua modalità di comunicazione: schemi che si ripetono all’interno di sovrastrutture che man mano diventano sempre più grandi tanto da non permetterci di vederne i confini, perduti e disorientati al suo interno. Questa insubordinazione comunicativa si potrebbe tradurre in quello che è il mio atteggiamento di prendermi poco sul serio. Mi permette di sforare anche verso quelle dimensioni auree dell’ARTE, profanandone alle volte il senso più sacro e divino, non più un contatto con l’estasi e la catarsi ma un contatto con la nuda realtà che ci mostra quanto l’uomo sia un essere difettoso e molto spesso miserabile.
L’immagine dell’uomo tagliato a metà nella Trasfigurazione di Cristo di Bellini ci suggerisce ancora una volta la totale partecipazione dello spettatore all’opera, che finisce per diventare letteralmente una parte dell’opera stessa. Ci sono relazioni con il senso di smarrimento provato dall’uomo di fronte al divino, si tratta di una perdita di sé, di un divertito gioco surrealista, come quello che ci sembra di leggere nell’immagine scattata nella sala Burri, o di altro?
Anche qui, la risposta è uguale a quella della precedente domanda.
Infine riguardo alla foto nella sala Burri l’idea della composizione è venuta fuori a distanza di giorni dallo scatto. In quella sala feci diverse foto e rivedendole a distanza di giorni mi colpì in particolare la prospettiva di una foto. Immaginai subito quale potesse essere l’elemento di disturbo perfetto in quella composizione: l’acqua ovviamente, e per drammatizzare ulteriormente il paradosso visivo avevo bisogno di qualcos’altro che sottolineasse l’elemento acqua, ed ecco dunque i pesci sospesi sul pavimento aria/acqua.
Intervista a cura di Alessio Cuccaro e Marina Morra
Foto di Charlie Davoli
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