Capodimonte oggi racconta… come nasce la passione per l’arte
Capodimonte oggi racconta… come nasce la passione per l’arte.
Marco Liberato del Dipartimento Documentazione del Museo e Real Bosco di Capodimonte ripercorre la sua scintilla iniziale.
Una storia da leggere tutta d’un fiato.
Ormai lavoro in questa struttura da 20 anni e ho sempre creduto che un patrimonio mondiale come questo debba essere tramandato alle nuove generazioni, nel modo più semplice, utilizzando la fantasia.
Ritengo infatti che lo storico dell’arte abbia un compito importantissimo, quello di dare gli strumenti necessari ad un giovane per entrare nel mondo dell’arte.
Proprio per questo bisogna porsi di fronte alle opere con un atteggiamento simile a quello di un bambino che si approccia alla vita, che si emoziona di fronte a tutto quello che per noi può sembrare banale ma che per lui è nuovo, è musica, magia, poesia, avventura, che l’arte riassume in sé con rapidi tocchi di pennello, note ideali di sinfonie e colori.
Ricordo, come fosse ieri, la prima volta che misi piede in questo museo.
Era primavera inoltrata, il sole filtrava spavaldamente dalle tende dagli enormi infissi in legno.
Ad un primo sguardo della sala dei Tiziano rimasi quasi senza fiato, allo stesso modo di quando, da bimbo, tenevo stretta la mano di mio padre nella mia per la paura dell’enorme mole dell’Ercole Farnese, che si stagliava dinanzi me.
A volte la vita è strana e proprio da quella paura, una sorta di vertigine che mi assalì, nacque pian piano dentro me una passione, piacere del sapere, che anni dopo mi avrebbe portato a lavorare e studiare proprio la famiglia Farnese, capace di tirar fuori dalle terme di Caracalla questo monumento magnifico.
Facendomi coraggio mi addentrai in quell’enorme salone, che noi familiarmente chiamiamo sala 2, e i miei occhi posero l’attenzione sulla figura di quell’arcigno anziano, Alessandro Farnese, che seppi poi essere uno dei grandi capostipiti della famiglia stessa, al soglio pontificio col nome di Paolo III (1534 -1549).
Rimasi folgorato dall’armonia dei rossi e degli scarlatti del Ritratto di Paolo III a capo scoperto, che Tiziano eseguì durante l’incontro a Busseto tra il Farnese e l’imperatore Carlo V (1543).
Il pontefice è seduto di tre quarti, allo stesso modo con cui Raffaello aveva precedentemente ritratto il pontefice Giulio II (1512), ma rispetto al ritratto dell’urbinate qui la figura del Papa sembra essere viva, ed io ne avvertivo un disagio, forse il messaggio che il pontefice voleva dare di sé.
Tutta la sua forza era concentrata nel suo sguardo, diretto, preciso, senza incertezze né esitazioni, e nel gesto della sua mano nodosa, che stringeva con forza inaspettata una borsa.
Uno dei motivi che mi aveva spinto a visitare la reggia borbonica era nato dal fatto che il mio professore di storia dell’arte, un pazzo scatenato che riusciva ad alimentare la mia passione, mi aveva parlato poco addietro di cosa fosse la prospettiva rinascimentale in pittura.
Mi diceva: “Uagliù a prospettiva è m’ammisuro, t’ammisuro, c’ammisuramm!”
Con queste poche ed essenziali parole, cosa aveva voluto dirmi?
Che l’arte, ad un certo punto della sua storia, aveva avuto bisogno di avere delle regole e queste nascevano dallo studio dell’antico, corroborate dalla nascita della prospettiva a punto unico di fuga, che poneva corpi e architetture perfettamente bilanciate, una nei confronti dell’altra.
Ricordo che per farci degli esempi ci parlò di Masaccio, di Firenze e la mia immaginazione cominciò a viaggiare, alla ricerca di quegli spazi e di quei luoghi.
Seppi allora che in questo museo era custodita una rara opera di questo maestro, la Crocifissione (1426), che il giovane artista aveva eseguito nella chiesa del Carmine di Pisa, per il notaio fiorentino ser Giuliano di Colino.
Si trattava di un polittico, le cui altre tavole oggi si trovano sparse oggi in molti musei del mondo, tra cui la National Gallery di Londra (Madonna in trono col Bambino).
Nella parte alta di questa composizione, nella sua cimasa, campeggiava, almeno fino al 1568 (quando viene descritta da Vasari nelle Vite), la figura di Cristo crocifisso.
È impossibile immaginare che in uno spazio così piccolo ci sia concentrata tanta forza.
Su un terreno arido è posta la croce dove Cristo sta passando i suoi ultimi attimi di vita.
La sua testa è incassata nel torace perché così sarebbe apparso a chi l’avesse osservato da basso.
L’umanizzazione degli stati d’animo dei rappresentati è stata in Masaccio l’altra sua rivoluzione.
La Vergine, il san Giovanni Battista, sono dilaniati dal dolore, tutto umano.
La Maddalena, di cui non scorgiamo il volto, posto di spalle, è riconoscibile dalla fluente chioma bionda.
Ha le braccia spalancate in modo struggente, espediente che serve a dare profondità alla scena, una vera e propria quinta teatrale che fa immaginare a tutti noi che tra la Maddalena e Cristo ci sia una profondità, altrimenti annullata dal fondo oro, quest’ultimo probabilmente scelto dallo stesso committente.
Non mi ero reso conto di quanto questo museo fosse grande e come al contempo potesse contenere opere dalle più svariate ed eterogenee manifatture.
Vagavo in queste sale, quasi come se stessi galleggiando leggero in un bolla d’aria, rapito dagli splendidi ritratti che intorno a me si affastellavano e che sembravano osservarmi.
Dai grandi maestri del primo manierismo quali l’Antea di Parmigianino o il Ritratto di Giovane di Rosso Fiorentino, fino ad arrivare alla bottega dei Carracci, che a Roma, in Palazzo Farnese, avevano dato prova del loro valore negli affreschi della volta (1600 ca) e nel camerino di Odoardo Farnese, dove Annibale aveva realizzato la splendida tela dell’Ercole al bivio, poi giunta a Napoli nel Settecento con Carlo di Borbone.
Di lì a poco davanti a me si apriva l’appartamento reale dei Borbone, realizzato a partire dal 1738.
Tra splendidi arredi e finissime decorazioni sulle pareti, fui però rapito da qualcosa di veramente originale.
Studiando all’Istituto d’Arte Filippo Palizzi a Napoli, ed essendo un ceramista, non potevo restare indifferente di fronte l’enorme grandezza prodotta dalle manifatture reali.
In particolar modo Giuseppe Gricci aveva realizzato per Maria Amalia di Sassonia, la moglie del re che aveva portato la splendida collezione di dipinti da Parma a Napoli, il Boudoir di porcellana, ovvero il salottino privato della regina, tutto completamente, tranne il soffitto in gesso, realizzato in porcellana di Capodimonte.
Maria Amalia, nipote di Augusto di Sassonia, che aveva avviato la rivoluzionaria produzione della porcellana di Meissen (1708 ca), inculcò la stessa passione nel marito, che fu capace di trovare la formula dell’impasto, il caolino unito con feldspati, e realizzare all’interno del bosco una fabbrica per la sua produzione (1743).
Il Salottino, vero e proprio monumento dell’arte Rocaille (Rococò), venne prodotto per la Reggia di Portici e solo dopo l’unità d’Italia giunse a Capodimonte.
Consiste in una serie di specchiature in porcellana fissate con viti su un telaio ligneo.
Al suo interno viene magnificata la figura del re Carlo, elogiato dalla miriade di personaggi asiatici che srotolano dei cartigli, in lingua mandarino, tutti inneggianti alla magnanimità e lungimiranza del re, che da poco aveva fatto istituire con Matteo Ripa la prima colonia cinese in Europa, che diventerà la propaggine dell’Orientale, l’Università degli studi linguistici di Napoli.
Appagato da tanta bellezza mi ritrovai poi, quasi dantescamente, in una selva, che non era altro che una scala, che dal secondo piano portava ad un piano rialzato, il terzo.
Mi trovavo nella sezione dedicata alla pittura dell’Ottocento.
Di fronte a me dei bersaglieri mi correvano incontro, erano quelli realizzati da Michele Cammarano per la Breccia di porta Pia.
Ebbi il coraggio di affrontarli e anche di voltargli le spalle.
Il mio animo era rapito da una donna, una donna che portava a spasso i suoi cani in un parco indefinito.
Questa donna aveva lo sguardo perso nel vuoto, probabilmente fissava un punto qualsiasi perché la sua mente pensava ad altro.
Un amore appena conosciuto? Il dolore per la perdita di un suo congiunto?
Gli echi delle guerre che ancora ardevano sotto il carbone dei camini?
Il tutto era eseguito con un lirismo, una capacità di far percepire, con colpi rapidi di pennello, un’atmosfera, una stagione, un momento della giornata, che raramente ho poi potuto osservare in altri artisti.
Avevo appena conosciuto Giovanni Boldini e la sua Passeggiata nel parco.
Da allora, e sono passati tanti anni, se mi concentro riesco ancora a sentire il vento fischiare fra i rami di quel boschetto e quei cani abbaiare.
È la magia del racconto che si fa pittura e che ognuno immagina a modo suo.
Potrei narrarvi le tantissime altre meravigliose immagini che vidi quel giorno, ma questo guasterebbe il finale, perché spetta a voi, solo a voi, scegliere e vedere tutto il resto, creare un proprio percorso, un proprio eroe, e tutto questo sarà possibile a tutti voi (speriamo a breve).
Noi vi aspettiamo, per emozionarci ed emozionarvi con i vostri racconti.
#iorestoacasa
Testo di Marco Liberato
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