L’italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… la Resurrezione di Cristo di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma
Oggi, per augurarvi una buona Pasqua, abbiamo deciso di presentarvi la Resurrezione di Cristo di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma.
Lo fa per noi Patrizia Piscitello, storico dell’arte e curatore del XVI secolo del Museo e Real Bosco di Capodimonte per la nostra rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta.
Speriamo che la lettura di quest’opera possa farvi giungere il nostro migliore augurio di serenità.
Nel percorso del secondo piano del Museo di Capodimonte, tra le opere della scuola napoletana e quelle provenienti dalle chiese ci si imbatte in una inaspettata Resurrezione di Cristo di Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma: pittore originario di Vercelli, naturalizzato senese, che nella sua ricca carriera non scese mai lo stivale più a sud di Roma.
Siamo alla metà degli anni Trenta del Cinquecento, quando, dopo le straordinarie imprese romane ottenute grazie all’intervento dei potenti banchieri senesi Chigi – il soffitto della sala della Segnatura apostolica in Vaticano (1508 -09), gli affreschi della stanza di Alessandro e Rossane alla Villa Farnesina (1516 – 17) – Sodoma era rientrato stabilmente nella città Toscana e conduceva una fervente e apprezzata attività tra commissioni pubbliche e private, lasciando un segno indelebile nella scuola pittorica locale.
Proprio con una commissione pubblica, la Resurrezione di Cristo ad affresco realizzata nel Palazzo Pubblico di Siena, incontriamo notevoli analogie con la tavola napoletana. Il dipinto senese, realizzato nel 1535 su commissione del carmerlingo della Biccherna, Giovanni di Giacomo Tondi, ha una impaginazione simile, anche nei motivi di fondo, in cui la narrazione si allarga al sopraggiungere delle pie donne al sepolcro; differisce la posizione del Cristo che nella storia senese si slancia con il piede dal sepolcro, mentre nel dipinto napoletano è ritratto già nella sua salita al cielo.
La Resurrezione di Cristo era un evento centrale del calendario liturgico e come tale doveva essere presentata al pubblico dei fedeli che affollava numeroso i luoghi di culto.
La definizione iconografica non era stata semplice e immediata: la prima difficoltà si incontrava nella rappresentazione del preciso momento in cui il Cristo, victor mortis, usciva dal sepolcro e si elevava per ricongiungersi al padre, uno degli articoli di fede più misteriosi della dottrina cristiana, non narrato nei quattro Vangeli canonici, che passavano dalla deposizione direttamente al ritrovamento del sepolcro vuoto: il mistero si intuisce ma non si vede.
Quindi bisognava industriarsi con l’immaginazione.
Salvatore Settis (Iconografia dell’arte italiana 1100-1500: una linea, Torino 1979) ne ricostruisce l’evoluzione per capisaldi: a partire dal XII secolo, in piena adesione ai Vangeli, venivano rappresentate le pie donne davanti ad un sepolcro scavato nella roccia, vuoto, e lì incontravano un angelo: con la presenza del messaggero celeste si sanciva l’avvenuto evento.
Tocca a Giotto, nella cappella degli Scrovegni a Padova (1305-06), segnare il punto di svolta: dipinge nella stessa porzione di muro un sepolcro antico, una vasca di marmo, sorvegliato da angeli, e la scena del Noli me tangere, l’incontro di Cristo risorto con la Maddalena; da lì la strada è aperta alla iconografia dominante, governata dall’immagine del Cristo che s’innalza a mezz’aria sul sepolcro brandendo un vessillo crociato, circonfuso da una mandorla di cherubini.
Gettate le basi ritorniamo a Sodoma.
La tavola napoletana aveva una data 1534 su un cartiglio, posto in basso tra l’erba, risultata spuria durante il restauro del 1930, ma si tratta di una datazione verosimile, in stretta contiguità con l’affresco di Siena del ’35; il modellato plastico delle figure di soldati in primo piano assume dei moti esagitati ai limiti del grottesco che, come evidenziato da Carli (1979), funge da preludio al maturo gusto manierista.
Ma la vera sorpresa nella Napoli di quegli anni doveva essere lo straordinario paesaggio, in cui trovano una giusta dimensione tutti gli elementi che costituiscono il nuovo lessico del paesaggio romanizzante, utilizzato da Polidoro da Caravaggio negli affreschi della cappella di frà Mariano Fetti in San Silvestro al Quirinale (1526)
ed introdotti in nuce da Sodoma sia negli affreschi della stanza di Alessandro e Rossane alla Villa Farnesina (1516 – 17)
che nel San Sebastiano degli Uffizi (1525).
Un lessico costituito da edifici classici ed acquedotti diruti, ponticelli arcuati su fiumi, infestati da vegetazione, che aprono lo sguardo ad una bruma azzurrina verso l’orizzonte, ed avrà il suo massimo sviluppo dalla metà degli anni Trenta attraverso un manipolo di pittori fiamminghi scesi a Roma tra cui emerge Herman Posthumus (Tempus edax rerum, 1536, Vaduz, coll. Liechtenstein) e successivamente nell’impresa decorativa condotta da Perin del Vaga per gli appartamenti di papa Paolo III Farnese in Castel Sant’Angelo (1545).
Bisognerà attendere quasi quarant’anni per ritrovare nelle chiese di Napoli un paesaggio assimilabile a quello di Sodoma e sarà nell’opera di un altro senese il San Michele Arcangelo di Marco Pino nella chiesa di Sant’Angelo al Nilo (1573), qui l’espressionismo tardo manierista si spinge fino alla deformazione.
La Resurrezione di Capodimonte proviene dalla chiesa napoletana di San Tommaso d’Aquino dove è vista nel 1623 dal d’Engenio:
Nella cappella a destra della porta maggiore è la tavola in cui è la Resurrettione di Christo, ove adormentate le guardie stanno come morte, mentre Christo sale in alto con una attitudine che ben pare glorificato, e due Angioli sopra il sepolcro, opera invero rara e d’incredibil bellezza; il tutto fu opera di Gio. Antonio da Verzelli, per sopra nome detto il Soddomo, cavaliere a sproni d’oro, illustre pittore, il qual fiorì nel 1510.
Fu commissionata probabilmente da Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e di Pescara, il quale nel 1534 fece dono ai frati domenicani del prospiciente giardino e di alcune case al fine di edificare il convento; si è così supposto che a tale occasione risalga la commissione del dipinto al Sodoma, che, carico del prestigio delle commissioni pubbliche e già pittore gradito agli spagnoli a Siena, inviò a Napoli la tavola (Bartalini 2012).
A seguito delle confische dei beni ecclesiastici la pala fu trasferita nel 1806 nel museo nel Regio Palazzo degli Studi a Napoli e successivamente seguì le vicende dei dipinti delle collezioni Farnese e Borbone approdando nel 1957 nel neonato museo di Capodimonte.
Il testo di Patrizia Piscitello è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
Leggi tutti gli articoli della rubrica
Seguite gli aggiornamenti sul nostro blog e i nostri canali social