L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Colantonio
Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… Pierluigi Leone de Castris, docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove dirige la Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte, ci parla del maestro napoletano di Antonello da Messina, Colantonio, il maggiore artista in un momento straordinario, di Rinascimento fiammingo, per la città di Napoli e il Meridione d’Italia.
Al secondo piano del museo di Capodimonte, la sala dedicata a Colantonio racconta un momento cruciale della storia e della cultura di Napoli: il passaggio dalla dinastia francese degli Angiò a quella spagnola degli Aragona, ma insieme anche tra la tradizione gotica e il nuovo linguaggio del Rinascimento.
A Napoli e nel Meridione d’Italia, tuttavia, grazie alle frequentazioni europee, al gusto e al collezionismo dell’ultimo sovrano angioino, Renato (1438-42), e del primo sovrano aragonese, Alfonso il Magnanimo (1442-58), l’arte rinascimentale non ha all’origine i caratteri tipici del Rinascimento toscano, centro ed anche nord-italiano, con le sue ricerche di geometria, di nuova resa prospettica dello spazio e di rimando alla tradizione classica, ma piuttosto del Rinascimento fiammingo, attento alla resa analitica e scrupolosa del reale, agli effetti ottici, all’imitazione fedele della natura.
Il maggiore artista di questo momento – ci narrano le fonti – fu il napoletano Colantonio, il quale avrebbe voluto recarsi a studiare appunto nelle Fiandre ma fu trattenuto a Napoli e formato ai “segreti” della pittura fiamminga dallo stesso re Renato d’Angiò (che aveva forse conosciuto i grandi pittori nordici van Eyck e van der Weyden negli anni precedenti la sua discesa al Sud, quand’era prigioniero del duca Filippo di Borgogna) o meglio ancora dai suoi pittori di corte, anch’essi provenienti dalle Fiandre o dalla Provenza.
La fonte più antica e più loquace su Colantonio, la lettera dell’umanista Pietro Summonte al suo corrispondente veneziano Marcantonio Michiel (1524), ci dice in particolare che la specialità di quest’ultimo, una volta divenuto maestro, era quella di copiare gli originali fiamminghi che il nuovo re Alfonso d’Aragona andava collezionando per sé in Castel Nuovo, come il San Giorgio di van Eyck (e probabilmente anche il San Girolamo del trittico Lomellino, donato al sovrano nel 1444) o le altre opere nordiche intanto giunte a Napoli, fra le quali la serie di arazzi di Roger van der Weyden con le Storie della Passione.
Di Colantonio il Museo possiede due opere che hanno storie diverse, che oggi ci appaiono in qualche modo differenti tra loro e che nel passato sono state infatti credute di artisti diversi: il San Girolamo nello studio e il San Francesco che consegna la regola ai francescani e alle clarisse.
L’uno dipinto su una tavola di formato rettangolare e rappresentato dentro lo spazio stretto e veridico di uno studio ingombro di volumi e di carte, intento a togliere con una sorta di bisturi una spina dalla zampa di un melanconico e mansueto leone, con le scansie lignee alle sue spalle fitte di una formidabile “natura morta” di libri, lettere, rotoli, clessidre, forbici, ceralacche, panni annodati, nastri e strumenti di scrittura attentamente descritti e colpiti dalla luce, il suo cappello cardinalizio in bella mostra su un tavolo e i topolini che in basso, nell’ombra, rosicchiano le carte intanto cadute a terra.
E il secondo, il San Francesco, dipinto invece su una tavola centinata, tonda, e su un fondo d’oro inciso, raffigurato in piedi su un vivace pavimento di mattonelle valenzane visto molto in scorcio, dal basso, e tante figure di monache e frati inginocchiati ai suoi lati, alcuni dei quali veri e propri ritratti e comunque tutti vestiti in ricchi sai le cui pieghe, ampie e spezzate, cadono in terra con effetti di virtuosismo propri della pittura appunto fiamminga.
Le due opere provengono entrambe dalla chiesa napoletana di San Lorenzo Maggiore, ma il San Girolamo arrivò al Museo – allora al Palazzo detto degli Studi – nel 1808, e già a metà Ottocento era creduto opera di van Eyck o di un suo collaboratore, mentre il San Francesco, rimasto in chiesa, veniva attribuito nel Settecento dal De Dominici allo “Zingaro” e poi – giunto anch’esso al Museo, allora Nazionale, nel 1922 – da vari studiosi al pittore di corte valenzano di Alfonso d’Aragona Jacomart Baço o a qualche altro artista di cultura ispano-fiamminga.
Solo gradatamente, nel corso del Novecento, si è capito, sulla scorta della testimonianza di fonti del Cinque e del Seicento come Summonte o Tutini, che entrambe le tavole erano in realtà opere del napoletano Colantonio, ed anzi parti – l’una sull’altra – di una stessa grande pala d’altare, un retablo a due piani, racchiusa in una ricca cornice in legno dorato e con ai lati due alti pilastrini che ospitavano dieci o forse dodici Beati francescani oggi dispersi fra varie collezioni private.
Il complesso, smembrato e diviso già prima della metà del Seicento, era in origine collocato nel transetto destro della chiesa e doveva gareggiare con il San Ludovico di Simone Martini – oggi anch’esso a Capodimonte – ch’era forse sull’altar maggiore, e con un Sant’Antonio di Padova che ancor oggi si trova nel transetto sinistro, oggetto di grande devozione.
Fu probabilmente commissionato attorno al 1444-45 dallo stesso sovrano Alfonso il Magnanimo, i cui stemmi – Aragona e Aragona-Sicilia – sono raffigurati nelle riggiole del pavimento, forse per ingraziarsi i frati del convento di San Lorenzo, dove aveva tenuto nel 1443 il primo Parlamento del Regno, e certo per devozione e in memoria del grande predicatore francescano San Bernardino da Siena, che era morto nel ‘44 all’Aquila, nel Regno, già in odore di santità e che, a quel tempo non ancora canonizzato, è raffigurato infatti vecchio e sdentato (e con un’aureola un po’ più piccola e monocroma) accanto a Sant’Antonio e San Ludovico tra i frati che ricevono la regola.
La realizzazione del grande retablo dové impegnare Colantonio per qualche tempo.
Il San Girolamo mostra infatti le tracce della sua passione da “copista” per i primi originali fiamminghi giunti a Napoli e della sua formazione, al tempo di re Renato, al seguito dei pittori franco-fiamminghi di quella corte, fra cui dové esserci quel Barthélemy d’Eck che, tornato con Renato in Provenza, dipingeva proprio in quegli anni il trittico dell’Annunciazione della Cattedrale di Aix.
Il San Francesco, invece, per quanto molto fiammingo anch’esso, si dimostra più prossimo nel repertorio decorativo, nelle piastrelle e negli ori, al gusto appariscente e fastoso della pittura valenzana del tempo e in particolare dell’altro pittore di corte Jacomart, che nel 1444 aveva realizzato per Alfonso d’Aragona un grande retablo, oggi perduto, per la chiesa della Pace.
Le due tavole di Capodimonte, capolavori del Quattrocento meridionale, precedono in ogni caso le altre opere dello stesso artista – la Deposizione dalla croce (1455 circa), il polittico di San Vincenzo Ferrer (1456-’57) – dipinte per le altre chiese cittadine di San Domenico Maggiore e San Pietro Martire ed oggi anch’esse temporaneamente a Capodimonte, ed aprono la strada al più complesso e ricco linguaggio “mediterraneo”, ormai più italiano e però pur sempre europeo, di quello che le stesse fonti cinquecentesche ricordano come il principale allievo a Napoli di Colantonio, e cioè del ben più celebre Antonello da Messina.
Il testo di Pierluigi Leone de Castris è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta”.
Leggi tutti gli articoli della rubrica
Seguite gli aggiornamenti sul nostro blog e i nostri canali social