skip to Main Content

L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… il bestiario simbolico medio-orientale in un raro tessuto napoletano del Trecento. Il racconto dei ritrovamenti e della condivisione

Per la rubrica L’Italia chiamò – Capodimonte oggi racconta… il bestiario simbolico medio-orientale in un raro tessuto napoletano del Trecento. Un racconto di ritrovamenti e di condivisione.

Il testo è a cura di Silvana Musella Guida e Bianca Stranieri, docenti di Storia dell’arte nei Licei artistici napoletani; la Musella Guida già docente di Arti applicate all’Università di Matera, la Stranieri membro del comitato scientifico del Museo Artistico Industriale di Napoli, entrambe studiose dei manufatti tessili.

 

… Molte tele vedrete/Se comprar le vorrete/Bianche, brunette e forti/Di cinquecento sorti,/ come cento altre, che han le villanelle/ Chiamate cetronelle/che fan invidia a quelle, in fede mia,/ de la Cava. 

(Giovan Battista del Tufo)

 

Molti anni or sono durante una campagna di restauri, condotta da Pierluigi Leone de Castris, in San Giorgio Maggiore a Napoli, dietro l’altare maggiore, in un rocchio di colonna, probabilmente greco-romano, utilizzato come urna furono ritrovate le ossa di San Severo avvolte in un telo di lino.

 

Urna con le reliquie di San Massimo, Napoli, San Giorgio Maggiore

 

Queste erano state traslate dalla cappella di San Severo alla Sanità alla basilica di San Giorgio Maggiore nella seconda metà del secolo IX quando altri corpi di Santi Vescovi napoletani furono trasferiti entro le mura.

 

Nel 1310 per volontà di Uberto d’Ormont, arcivescovo di Napoli nei primi anni del XIV secolo, il cui raro e bel ritratto di Lello da Orvieto è oggi al Museo Diocesano di Napoli dall’oratorio speciale entro il quale si trovavano, furono rimosse e collocate nell’arca marmorea sotto l’altare maggiore.

 

A questa data furono protette dal prezioso telo di lino e seta in tutto integro probabilmente grazie alla lunga permanenza entro il rocchio di colonna marmoreo; il colore e i fili non hanno subito alcuna alterazione, se non piccole lacerazioni in alcuni punti.

Convocata, all’epoca studiavo proprio gli inventari trecenteschi per una ricognizione sui tessili, accrebbi l’entusiasmo dell’amico dopo aver analizzato l’oggetto.

Successivamente restaurato, è oggi collocato nell’abside della chiesa.

 

Un ritrovamento così importante era già tanto!

Ma la ricerca ci porta su sentieri inaspettati e la collaborazione apre tante strade.

Quasi in contemporanea Giangiotto Borrelli che conduceva una campagna di schedatura sui materiali di arte decorativa del Duomo di Napoli mi sottopose una fotografia per avere suggerimenti sul materiale.

Ancora una splendida sorpresa, si trattava di un frammento di tessuto di lino e seta chiuso in una cornice dorata che stimai essere un po’ più antico rispetto al primo reperto ritrovato.

Molte forze entrarono in campo, ne fu deciso il restauro presso l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma il cui laboratorio di restauro del tessile era diretto da Rosalia Varoli, la restauratrice fu Rosanna Rosicarello con l’assistenza di una stagista napoletana Annamaria Schiano.

 

In quei luoghi belli e prestigiosi si andava conducendo anche il restauro del primo telo ritrovato e così andai e tornai da Roma più volte per aggiornarmi sui procedimenti che in sintesi furono spolveratura, lavaggio consolidamento rimontaggio e analisi scientifica, risultati poi presentati al convegno ICOM di Palermo nell’ottobre del 1998.

 

I due teli furono rispettivamente collocati a San Giorgio Maggiore e al Museo e Real Bosco di Capodimonte.

 

Manifattura napoletana, Telo Reliquiario di San Massimo, fine sec. XIII, tela di lino con opera in trame lanciate in seta, trama I: lino grezzo torsione Z, riduzione: 23 fili circa a cm. Trama II: seta viola STA, riduzione: 9 fili circa a cm. Cimosa: armatura tela. Misure cm. 85 x 114, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, in deposito temporaneo dal Duomo di Napoli

 

Il telo di San Massimo, così fu da noi titolato, comunica molte informazioni che aprono il campo a considerazioni storiche, economiche, artistiche e quant’altro e si collegano a più di un testo iconografico e a tanti documenti.

 

Di che si tratta? È un grosso frammento di tela di lino avorio bordato su un lato con un’opera in filato di seta viola scuro, ritrovato durante una campagna di ricognizione delle tombe dei Santi vescovi nel Duomo di Napoli a fine Ottocento.

 

La cornice entro la quale era custodito conservava un cartiglio in pergamena sul quale era riportato il nome del santo.

 

Il bordo è composto di tre fasce decorate ottenute per trame lanciate, delle quali la centrale è più grande circa il doppio delle altre; la prima e la terza presentano pellicani racchiusi in esagoni.

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari

 

La fascia centrale è composta da una serie di arcate squadrate nelle quali sono disposti, pavoni, senmurv, gazzelle e cerbiatti.

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari. Canide alato (senmurv)

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari. Canide alato (senmurv)

 

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari. Capretta

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari. Capriolo

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari. Pavoni

 

Telo Reliquiario di San Massimo, particolari. Pellicani

 

Sul lato destro è la cimosa in lino; il sinistro è grossolanamente tagliato ed interrompe il bordo decorato.

 

Il margine inferiore, segnato da due fasce rispettivamente di tre e due righe in seta, conserva frange di diversa altezza in corrispondenza di due teli tessuti separatamente, entrambi con cimosa, e congiunti insieme sul telaio all’altezza di 20 cm al margine alla prima fascia decorata.

 

L’anomalia potrebbe essere considerata un ripensamento o un errore nell’armatura del telaio; d’altra parte in più punti proprio nella tela di fondo si rilevano imprecisioni regolarizzate con l’inserimento di trame che pareggiano le battiture inesatte.

 

Le reliquie di San Massimo subirono più spostamenti e pervennero nella Stefania, antico duomo tra l’842 e l’849 e ancora ricollocate dopo la costruzione della cattedrale angioina e infine ritrovate nel 1882 sotto l’altare della Cappella di S. Atanasio durante una ricognizione condotta da Gennaro Aspreno Galante che ne lasciò traccia scritta nella relazione in latino che non lascia dubbi:

 

… apparuit ossium ac pulveris congeries linteo albo obtecta, quod imas oras acu pictas et fimbriis exornatas…

 

Quindi un telo di lino bianco, ornato da un ricamo, ma si sbagliava, e con frangia rispondente al nostro.

 

La seconda ricollocazione delle reliquie, in età angioina al tempo della costruzione del Duomo, può dunque orientare la datazione intorno all’ultimo quarto del Duecento.

 

L’apparato iconografico esibisce una ricca simbologia legata al repertorio del bestiario simbolico medio-orientale acquisito nel meridione, e in tutt’Europa, dai tessuti e le oreficerie d’importazione.

 

Nel telo di San Massimo in combinazione con il senmurv – animale composito cane-uccello mediato dalla cultura sasanide, conosciuto nel Medioevo come pistrice, simbolo della regalità – sono l’aquila, simbolo del potere laico, e piccoli uccelli forse riferimenti alla caccia.

 

Composti entro la teoria di arcate sono i pavoni affrontati all’albero della vita, nella forma di un vaso con ramo fiorito, dal complesso significato regale e religioso – che dovevano segnare la centralità del bordo decorato – il capretto e l’agnello, entrambi più noti simboli cristiani.

 

I pavoni rivestono il doppio emblema di incorruttibilità e di immortalità, affiancati all’albero della vita, al vaso o alla coppa, indicano al cristiano le qualità dell’Eucarestia.

 

Il pavone indica anche Resurrezione e Immortalità e nel tempo l’uccello si affiancò alla Giustizia, divina e terrena.

 

Le piume di pavone nel Trecento furono impiegate anche nella confezione dei mantelli regali per affermare appunto l’imparzialità del regnante e richiamare l’attenzione per l’apparenza multicolore e cangiante delle piume.

Il telo di San Severo elabora una decorazione più complessa arricchita dalla fenice, uccello favoloso e immortale che appare solo in tempo di pace e ogni anno si lascia bruciare per poi risorgere dalle sue ceneri.

Il grifone come la fenice sono simboli del Cristo che risorge.

Dante, considerando la proprietà attribuita al grifone come simbolo della doppia natura del Cristo (Uomo e Dio), scrisse:

 

«fiera / ch’è sola una persona in due nature»

(Pg. XXXI, 80-81)

 

L’albero della vita è, infine, presente in quattro diverse configurazioni che segnalano una significativa conoscenza del tema elaborato sui tessuti d’importazione e di produzione centro-meridionale.

 

Due tessuti con elementi simbolici affini che per fattura si scaglionano tra fine Duecento ed inizio Trecento ma che recano i segni del cambiamento radicale della cultura artistica del tempo.

 

Il discorso è assai complesso e per quanto meriti di essere ricordato andrebbe esaminato più a lungo.

 

Dal momento in cui il bestiario apparve nei teli in oggetto e nelle tovaglie perugine bianco e blu, la tradizione tessile lo accolse ed entrò nei pattern decorativi della cultura tessile meridionale, in Calabria come in Sicilia e in Sardegna dove ancora oggi sono replicati nelle tessitorie artigianali.

 

Confronti

 

 

Napoli del lino

 

Le due tovaglie, ad un primo esame sembrarono potersi accostare alle tovaglie perugine.

La ricognizione sulle fonti documentarie, propose, viceversa, la possibilità di una attribuzione ad area campana e probabilmente proprio ad una manifattura napoletana.

 

“La principale ricchezza di Napoli [consiste] nel lino e ne’ tessuti di quello. Io ne ho visto in quella [città] delle pezze alle quali non trovo compagne in nessun altro paese; né avvi artefice che sappia fabbricarne in nessun altro tiraz del mondo: della tela tirata di cento dirà sopra quindici o dieci; la quale si vende da cenciqunta rubā , ï alla pezza più o meno.”

 

Scrive il viaggiatore medio orientale Bagdad Ibn Hawqal negli anni settanta del X secolo.

 

In poche battute definì la città centro di commerci e di attività produttive con laboratori in grado di produrre tessuti di altezza notevole mai prodotti in altri laboratori.

 

La considerazione assai nota grazie agli approfondimenti di Amedeo Feniello e di numerosi studiosi come Abulafia, Galasso, Del Treppo e tanti altri senza trascurare le sintetiche ma preziose indicazioni di Yver, trova riscontri documentari che rivelano di una lavorazione diffusa sia di tipo casalingo che di imprese più consistenti gestite da importanti esponenti dell’aristocrazia cittadina le cui produzioni arrivarono in molti paesi mediterranei.

 

Con l’egemonia normanna i porti del Sud cedettero alle potenze marittime centro-settentrionali, lo sviluppo dei commerci si invertì confluendo verso il settentrione includendo la Francia e le Fiandre. Napoli rispose divenendo un centro di scambio.

 

Nonostante gli stravolgimenti politici e dinastici la città conservò la lavorazione tradizionale tanto che in un diploma di Roberto d’Angiò del 27 gennaio 1313 è ricordato che i mercanti stranieri preferivano acquistare dobletti, tovaglie e mesali alla fiera di Salerno di produzione locale.

 

Dalla lavorazione cittadina in mano alle nobili famiglie napoletane per volontà di Carlo II, le aree cittadine dove si praticava la macerazione delle fibre di lino sfavorevoli all’igiene pubblica, furono bonificate e l’attività fu trasferita fuori città e questa volta nelle mani della più potente istituzione religiosa del tempo, gli ordini minori.

 

Nei secoli successivi le tele di lino napoletane saranno ancora ricordate da Masuccio Salernitano in alcune pagine del Novellino (novella XIX) e a metà del Seicento dal cronista milanese Del Tufo nel Ritratto della nobilissima città di Napoli con le parole in versi citate in premessa che si riferivano alla vendita dei prodotti nella piazza Mercato.

 

lintheamina, linteamina, lintiamina … de canapa, de tela, de Napoli, de rensi [Reims]

 

teli di lino di diversi filati lavorati a Napoli ma anche a Reims come in Olanda, dagli svariati usi.

 

Ma i documenti sono assai precisi evocando anche le nostre:

 

Tobaleas duas de serico listatas de auro, Tobaleam unam cum listis de auro, Tobaleam unam cum certis listis de bombice diversorum colorum in utroque capite,

 

dove per listatas e listis s’intende appunto a righe.

 

Molte venivano utilizzate come tovaglie d’altare … Tobaleas pro altari … ritratte da Giotto, da Pietro Cavallini, da Roberto d’Oderiso e tanti altri.

 

Pietro Cavallini (1308-09), Assunzione di San Giovanni Evangelista
Napoli, San Domenico Maggiore, Cappella Brancaccio

 

A Napoli nella Cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore, nell’affresco con l’Assunzione di San Giovanni Evangelista (1308-09), Pietro Cavallini ne pone una sull’altare che a ben osservare riproduce lo spartito decorativo in orbicoli assai vicino alle nostre tovaglie.

 

Ma le tovaglie il lino e la seta si utilizzavano anche come … Tobaleas pro capite … copricapo femminile.

 

Qui i riferimenti iconografici si moltiplicano e mi piace solo ricordare alcuni particolari del Matrimonio e dell’Eucarestia negli affreschi dei Sacramenti di Roberto d’Oderisio all’Incoronata, mai troppo osservati, che aprono ad infinite considerazioni sulla moda del Trecento a Napoli.

 

Pietro Cavallini (1308-09), Assunzione di San Giovanni Evangelista
Napoli, San Domenico Maggiore, Cappella Brancaccio

 

 

Pietro Cavallini (1308-09), Assunzione di San Giovanni Evangelista
Napoli, San Domenico Maggiore, Cappella Brancaccio

 

 

Il testo di Silvana Musella Guida e Bianca Stranieri è inserito nell’iniziativa “L’Italia chiamò -Capodimonte oggi racconta”

 

Leggi tutti gli articoli della rubrica

 

Leggi tutti gli articoli sul blog

 

Segui gli aggiornamenti sui nostri canali social

 

Back To Top